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L’Ammoniaca è tossica, ma è l’uomo che uccide.
Diego Tesauro
L’anno 2025 si aperto con nuove morti sul lavoro: il 10 gennaio a seguito di una fuga di ammoniaca nell’azienda Frigocaserta di Gricignano d’Aversa (CE) ha perso la vita un giovane operaio. Le conseguenze potevano essere peggiori, se i colleghi della vittima non fossero riusciti a scappare e la zona industriale evacuata. Saranno le indagini a stabilire le cause di questo incidente, ma ancora una volta bisogna lamentare la scarsa sicurezza in impianti considerati ad alto rischio. Mentre nel caso di altri incidenti causati dall’emissione di composti chimici tossici non si aveva una conoscenza approfondita delle conseguenze, la pericolosità dell’ammoniaca è ben conosciuta ed anche le misure di sicurezza da prendere sono ben codificate. L’ammoniaca a temperatura ambiente è un gas incolore (liquefa -33°C a pressione ambiente per la presenza di ponti ad idrogeno) e alcalino, dal caratteristico odore forte e pungente che si percepisce già ad una concentrazione di 5 ppm. L’Occupational Safety and Health Administration (OSHA) degli USA stabilisce che la concentrazione massima tollerata è 25 ppm per 8 ore al giorno per 5 giorni di lavoro. La letteratura da oltre cento anni riporta che l’esposizione acuta a 5.000-10.000 ppm è rapidamente fatale nell’uomo e l’esposizione a 2.500-4.500 ppm fatale in circa 30 minuti. I decessi immediati, a seguito di eventi acuti, sono causati dall’ostruzione delle vie aeree, mentre le infezioni e altre complicanze sono fattori mortali tra coloro che sopravvivono per diversi giorni o settimane. Diverse sono le cause della tossicità dell’ammoniaca, ma due sono quelle scatenanti con effetto immediato. La prima bisogna farla risalire all’effetto Bohr (dal fisiologo danese Christian Bohr, padre di Niels Bohr). Questa proprietà consente all’emoglobina di variare la sua affinità per l’ossigeno in funzione della concentrazione degli ioni H+ e della concentrazione di CO2 quindi del pH. Pertanto l’ammoniaca, essendo solubile in soluzioni acquose e conferendo ad esse proprietà basiche, limita il rilascio dell’ossigeno nei tessuti. La seconda è l’interferenza con il ciclo di Krebs in quanto lega l’α-chetoglutarato che è coinvolto anche nella transaminazione degli amminoacidi (Figura 1).
Figura 1 Reazione dell’α-chetoglutarato con l’ammoniaca per sintetizzare il glutammato e la glutammina
Ma se è così tossica, anche a basse concentrazioni, come mai è il composto chimico maggiormente prodotto dopo l’acido solforico dall’industria chimica e trova tantissimi impieghi? Tutti abbiamo studiato la sua sintesi, fin dagli albori dei nostri studi di Chimica, mediante il processo Haber-Bosch che ha reso l’ammoniaca disponibile a basso costo ed in maniera abbondante fino a produrre oltre 150 milioni di tonnellate l’anno. L’80% dell’ammoniaca prodotta è utilizzata per produrre fertilizzanti, il resto trova impiego per la produzione di fibre sintetiche, plastica, esplosivi e prodotti detergenti. Ma un ruolo rilevante lo ha anche come refrigerante, con circa 0.500 milioni di tonnellate l’anno destinate a questo uso. L’utilizzo dell’ammoniaca come refrigerante iniziò in Francia a partire dal 1850 e successivamente negli Stati Uniti nel 1860. Agli albori del XX secolo, i frigoriferi ad ammoniaca venivano utilizzati in molte strutture commerciali per creare blocchi di ghiaccio e mantenere il cibo freddo o produrre altri prodotti chimici.
Gli impianti di refrigerazione ad ammoniaca funzionano come tutti i cicli frigoriferi che constano di quattro fasi principali: compressione, condensazione, espansione ed evaporazione.
L’ammoniaca viene compressa da un compressore che aumenta la sua pressione e temperatura. Poi viene condensata da uno scambiatore di calore, rilasciando il calore all’ambiente esterno. Quindi viene espansa diminuendo così la sua pressione e temperatura. Infine, viene evaporata da un altro scambiatore di calore, assorbendo il calore dall’ambiente che si intende raffreddare (figura 2).
Figura 2 Ciclo frigorifero dell’ammoniaca
Nella tabella sono riportati caratteristiche termodinamiche dell’ammoniaca per un ciclo ideale a compressione di vapore tra +30°C e -30°C che prevede condensazione ed evaporazione isobare e compressione isoentropica relazionato al refrigerante considerato un riferimento nei riguardi dell’efficienza energetica l’ R22 che non è altro che il Freon, il clorofluorocarburo responsabile del buco dell’ozono negli anni ottanta, messo al bando dal protocollo di Montreal.
L’ammoniaca presenta un incredibilmente elevato calore latente di vaporizzazione che implica che la portata di massa necessaria per garantire una determinata potenza frigorifera sia minore rispetto a quella che è necessaria con un refrigerante tradizionale (circa il 15% in meno rispetto all’ R22).
Da questi dati emergono i vantaggi dell’ammoniaca che sono l’efficienza energetica e la versatilità; a cui si aggiungono l’impatto ambientale ed il costo. In particolare:
Efficienza energetica: essendo dotata di eccellenti proprietà termodinamiche, l’ammoniaca presenta un rendimento maggiore in applicazioni ad alta e bassa temperatura rispetto al freon. I recenti sviluppi tecnologici nella combinazione di NH3 e CO2 hanno contribuito ad aumentare ulteriormente l’efficienza.
Impatto ambientale: è un refrigerante che non ha impatti né sul buco dell’ozono né sul riscaldamento globale: ha un ODP (indice dell’impatto sul buco dell’ozono) e un GWP (indice di impatto sull’effetto serra) pari a zero, a patto che l’idrogeno utilizzato nella sintesi sia verde. Presenta una breve vita atmosferica, durante la quale reagisce con gli ossidi di zolfo ed azoto presenti a seguito di eventi naturali, quali le eruzioni vulcaniche, ma anche per le emissioni antropiche. Questa reattività produce sali inorganici, quali il nitrato d’ammonio e il solfato d’ammonio che inducono un impatto sfavorevole in quanto partecipano alla formazione di particolato atmosferico secondario, specie quello minore del PM2.5, con effetti negativi sul clima e sulla qualità dell’aria anche in zone molto distanti da quelle di origine.
Versatilità: può essere usata in un ampio intervallo di temperature, dai 4°C sino al congelamento a –40°C. Può essere impiegata in diversi settori industriali e commerciali, come la conservazione degli alimenti.
Costo: è un refrigerante poco costoso e disponibile. Non è soggetto a limitazioni, se non quelle dettate dalle norme di sicurezza legate al trasposto, o tasse ambientali come i refrigeranti sintetici che per lo più sono delle molecole clorurate.
A fronte di questi vantaggi bisogna anche tener conto degli svantaggi dovuti all’infiammabilità e tossicità che pertanto richiedono osservanza delle misure di sicurezza, impiego di personale qualificato per la gestione degli impianti, installazione di dispositivi, come ad esempio l’estrattore in sala macchine per rilevare presenza di fughe ed aspirare l’ammoniaca quando si verifica un’elevata concentrazione del fluido nell’ambiente.
In ultimo la compatibilità dei materiali: l’ammoniaca non è compatibile con alcuni dei materiali più comuni come il rame in quanto il metallo subisce la tensocorrosione dovuta alla presenza di ossigeno ed alla formazione di complessi. Questo significa che è possibile utilizzare solo tubi in acciaio saldati per la costruzione degli impianti. Non è inoltre miscelabile con gli oli comuni, quindi è necessario utilizzare oli speciali o sistemi di ritorno dell’olio.
Nella refrigerazione, pur essendo un impiego marginale dell’ammoniaca prodotta, bisogna constatare che si verificano la maggior parte degli incidenti (quasi il 60%) rispetto agli altri settori in cui viene impiegata (Figura 3).
Figura 3 Settori in cui si sono verificati incidenti, preponderante è la refrigerazione
Questo dato mostra come è necessario l’applicazione di misure per ridurre la possibilità di incidenti. I dati dell’OSHA mettono anche in luce quali sono le cause alla base delle quali si sono verificati gli incidenti. Le due cause preponderanti sono il guasto delle apparecchiature e la scarsa manutenzione (oltre il 75% dei casi) (Figura 4).
Figura 4 Cause degli incidenti negli impianti di refrigerazione
Ora saranno le indagini della magistratura che faranno luce su quanto avvenuto alla Frigocaserta, al momento tranne l’incidente aereo, non si può escludere nessuna delle cause. Di fronte alla ennesima giovane vita spezzata come chimici non possiamo che diffondere la cultura della sicurezza. Questa consiste nel rispettare le norme, il rispetto delle procedure, usare i corretti metodi di lavoro, denunciare gli abusi e le inadempienze da parte delle ditte ed esigere la qualificazione degli operatori. Non si può rinunciare a preparare le persone, a munirle dei dispositivi idonei ed imporre che li usino. Non è la chimica che uccide, ma l’uomo.
Il Segno di Legame (–) ed il Legame C∙C. Parte seconda.
Matteo Savastano*
(la prima parte di questo post è stata pubblicata qui)
Ci eravamo lasciati con l’ambiguità del segno di legame tra I-I e [I-I-I] –.
Un ragionamento estemporaneo per cavarsi d’impaccio con poco è il seguente.
Considerate per un attimo la catena lineare di formula I∞ .
Se provaste a disegnarla (vi ho detto di assumerla lineare), il problema si riduce ad avere
questa situazione
(I I I I I I I I)n
e pensare come tracciare i segni di legame (essendo lineare ogni I avrà tre doppietti
elettronici sul piano perpendicolare all’asse della molecola): è un indovinello analogo a
quelli che si fanno con i fiammiferi, poco più.
Potreste propormi (nel seguito continuate a immaginare che gli schemi siano riferiti a mere
porzioni arbitrarie di una catena infinita):
ma qualcuno potrebbe notare che la situazione
deve essere equivalente.
E allora “il sistema vero”, che si chiama poi ibrido di risonanza – altro tema caro al Professore di Chimica Generale – sarebbe così fatto:
(Per i tre schemi sopra: Adapted with permission from ref. [8], copyright RSC 2024.)
Se questo fosse davvero un gioco di fiammiferi, sarebbe uno di quelli truffaldini in cui un fiammifero va spezzato!
Notate però che con questa trovata ogni I si trova d’intorno 8 elettroni di valenza, come vorrebbe Lewis, che pure non contemplava questa soluzione (va detto, per fargli giustizia, che forse mai si interessò ad I∞).
I legami che abbiamo tracciato, scoperta delle scoperte, sarebbero tutti a singolo elettrone (e ci sono evidenze che sia proprio così, vedete [8] e i lavori suggeriti lì dentro) e multicentrici (si parla di EDMB o electron-deficient multicenter bond). Vi avrei così dato, in quattro parole, infiniti più legami a singolo elettrone di quanti non ne siano apparsi su Nature: multicentrici però, si badi bene, e su sistemi non necessariamente radicalici (questo secondo fatto appare non trascurabile se si dovessero pensare delle applicazioni!).
Qualcuno potrebbe obiettare che I∞ non esiste: quanto a molecole discrete, avrebbe evidentemente ragione; rispetto ai filari di atomi che si possono trovare allo stato solido, un po’ meno. Per il fatto poi che spesso siano osservate alternanze di legame, ecco, l’idea è che molti di questi sistemi (ma non tutti) abbiano bisogno di un incoraggiamento per arrivare a queste situazioni, diciamo di una “spintarella”; spintarella che è tipicamente dell’ordine dei GPa. E dunque questa chimica è connessa alla chimica delle alte pressioni.
Se ci si facesse caso, I2 allo stato solido è già organizzato in filari. Il legame intramolecolare nella catena è un pochino più lungo rispetto ad I2 in fase gas, e l’interazione intermolecolare nella catena è significativamente più corta di una interazione di van der Waals [9]. Se poi lo si schiacciasse un poco, si noterebbe che le due distanze vanno assomigliandosi e una certa ridistribuzione elettronica e carattere multicentrico dei legami si potrebbero evincere dalle sue aumentate prestazione come conduttore elettrico, fino ad assumere un comportamento sostanzialmente metallico.
Dunque, più non apprezzati che non comuni, i legami elettrondeficienti sono noti, magari in contesti dove non necessariamente sollevano il recente clamore legato a C∙C, vivendo spesso sotto la mimetizzazione che l’ambiguità del simbolo di legame “–” gli offre.
Si può ora comprendere bene anche I3–.
I più smaliziati avranno subito riconosciuto in I3– un sistema a 3 centri e 4 elettroni (anche detto ERMB electron-rich multicenter bond). Un primo quesito che il sistema pone allo studente è: posto che il legame covalente è a 2 centri e 2 elettroni (2c-2e), come mai l’ordine di legame è più basso sia per gli ERMBs (3c-4e) sia per gli EDMBs (3c-2e, come nei casi famosi di B2H6 e H3+, che ricordava Tesauro, o 2c-1e nel caso esteso, che può evidentemente aver luogo solo allo stato solido e a livello di sistemi molto o infinitamente grandi).
Si intuisce che la domanda sia particolarmente ostica e poco adatta a chi muove i primi passi nella disciplina e, tipicamente, non conosce che legami singoli, doppi e tripli, le relative ibridazioni, e tutti quegli strumenti di base che devono essere forniti al primo anno.
Per capirlo (senza scomodare Rundle [10], Pimentel [11], Coulson [12], Hoffmann [13] e un po’ di chimica fisica) c’è un modo semplice: provare a disegnare I3– riferendosi alla soluzione per I∞. Badate bene che cito un po’ di nomi celebri con l’intento di far notare che questi concetti, magari assenti nei libri che si vorrebbero riformare, nella letteratura chimica di buon livello ci sono eccome! (Ulteriori argomenti circa la coesistenza di legami covalenti (2c-2e), ERMBs (e EDMBs in poliioduri discreti più lunghi di 3 atomi si può trovare in [8]).
Se provate a mettere un solo elettrone tra ogni atomo di iodio (neri in Figura 4), vi rendete conto che arrivate a I3+ e ad un EDMB: quel sistema lì vede gli atomi di I esterni con 7 elettroni di valenza (non otteziali) e solo l’atomo centrale otteziale. Se a quella situazione pensate ora di aggiungere gli elettroni che mancano per portare I3+ a I3– (cioè 2) (blu in Figura 4), la loro collocazione è ovvia: vanno sugli atomi laterali e ne completano l’ottetto.
Figura 4. Un modo un po’ diverso di scrivere la formula di Lewis di I3–. Sempre Adapted with permission from ref. [8], copyright RSC 2024.
D’un colpo vi siete spiegati in maniera semplice 5 cose:
1) che l’ordine di legame è più basso perché dei 4 elettroni solo 2 partecipano al legame (gli altri secondo l’orbitale molecolare, infatti, stanno in un orbitale di non legame centrato proprio sui due atomi esterni, non insisto in questa sede sull’effetto del mixing di orbitali s e p per semplicità);
2) che la distribuzione di carica che prevedete per questa strada è molto più congrua rispetto a quella reale dell’anione;
3) che l’aggettivo ipervalente non ha gran significato: non ci sono più di 8 elettroni intorno all’atomo centrale (come non ci sono nel carbonio pentacoordinato dello stato di transizione di una SN2, per capirsi); ipercoordinato sarebbe un aggettivo assai migliore;
4) gli orbitali d non c’entrano niente e l’anione è tenuto fondamentalmente insieme dalla sovrapposizione di orbitali di tipo p.
5) che il segno di legame “– ”, che ci hanno insegnato a tracciare, evidentemente lascia un po’ il tempo che trova. Su quest’ultimo punto però, vale quanto detto per H2 ed HF: badate che il Chimico che quel segno sia ambiguo in questo senso lo sa bene!
Per provare che la cosa è proprio così, dimostrarvi quanto sia naturale che la carica stia sugli atomi esterni e che non c’è bisogno di invocare alcun orbitale d ricorrerò ad un vecchio trucco ben condito con un aneddoto.
Interludio: la Pioniera della Cristallografia
Credo che tutti qui conosciate l’amara storia di Rosalind Franklin “l’eroina offesa” [14].
La cito perché, fatto più unico che raro, per una volta almeno… incredibilmente… non c’entra assolutamente niente!
Eccezionalmente mi concederete di parlare di un’altra cristallografa della prima ora che non sia lei.
Vi parlerò quindi di tale Rose Camille LeDieu.
Al che buona parte dei lettori donabbondiescamente diranno: “Rose Camille, chi era costei?”
Nata circa vent’anni prima di Rosalind (nel 1902), vissuta, per sua fortuna, ben più a lungo (fino al 1981), si dice sia stata la prima donna nella cristallografia USA. Non essendo diventata una tragica icona è assai meno ricordata della collega. Di contro, si è già detto altrove di come lo status iconico abbia fatto peggio che meglio all’immagine scientifica della Franklin [14, 15] (che dunque io qui cerco, nel mio personalissimo modo, di aiutare), cosa che alla LeDieu non è successa. A livello di bilancio di genere mi sento sereno a parlarvi di un’altra, per una volta almeno, anziché di Rosalind – inflazionata suo malgrado; se poi il problema fosse invece l’un terzo di Nobel mancato, mi si darà credito di non aver fatto un fiato sullo scandalo delle 41 nomine inconcludenti per l’ottimo Gilbert Newton Lewis [16].
Ma veniamo, finalmente, a Rose Camille.
Questa scienziata, pioniera della cristallografia – tecnicamente un fisico, non un chimico, per formazione prima e per cattedra poi – si dà il caso che riportò, tra le altre, proprio alcune delle prime strutture contenenti l’anione triioduro. Siccome l’anione appariva ora simmetrico e ora no, a seconda dell’intorno chimico – un fatto curioso assai – evidentemente ci deve aver pensato sopra lungamente. La domanda può essere così formulata: considerata la reazione I2 + I– ⇌ I3–, considerati i legami peculiari in I3–, e considerato che, a guardarlo bene, I3– è fatto esattamente come lo stato di transizione di una reazione SN2, questo anione, che i dati cristallografici vedono ora asimmetrico e ora no, come è da attendersi che sia fatto? Simmetrico o asimmetrico? E perché non lo osserviamo sempre fatto allo stesso modo allo stato solido?
Occorreva a Rose una pezza d’appoggio teorica per razionalizzare il dato sperimentale.
Non si sa esattamente come fu, ma si sa per certo che ne deve aver discusso a casa con il marito. Mi pare questo un comportamento molto umano e naturale: anche io mi trovo ad ammorbare mia moglie con i miei grattacapi, scientifici e non; lei paziente mi ascolta, fa domande, propone: va a finire che qualche idea ci scappa sempre.
Fatto rilevante per la narrazione è che Rose Camille di mariti ne ebbe due. Il primo, tale Mooney, non ho la più pallida idea di chi fosse (e me ne scuso); il secondo però lo conosco piuttosto bene: era John C. Slater (e la LeDieu, se proprio voleste cercarla, è ben più nota alla comunità scientifica, secondo l’uso del tempo, con il nome di Rose C. Mooney, prima, e con quello di Rose Camille Mooney-Slater, poi).
Fu così che i due coniugi pubblicarono, nel 1959, due lavori gemelli, fianco a fianco: uno con la teoria (di J. C. Slater) [17] e l’altro con il dato sperimentale (di R. C. Mooney-Slater) [18].
Mentre Rose si diede non poco da fare con la questione strutturale e i dati sperimentali (conosco questa storia per essermi occupato nel 2021 di popolare di dati moderni proprio un certo grafico che Rose Camille ideò per l’occasione [19]), il marito prese invece la via di minore resistenza, venendo a capo della questione in poche paginette.
Fu così che J.C. Slater si cavò di impaccio tirando fuori dal cappello un’idea spiccia: far vedere che I3– è analogo all’anione bifluoruro, FHF–.
Si tratta di un mero espediente, uno però che continua a funzionare in maniera eccellente anche oggi, ben 65 anni dopo.
Con FHF– sì che siete in grado di capire immediatamente che la carica sta sugli atomi più esterni e non su quello centrale; sì, che vi rendete conto che non ci sono 4 elettroni intorno all’atomo di H, che non ha orbitali di energia decente in cui ospitarli; sì, che capite che gli orbitali d non c’entrano niente.
Vi convincerete così che quei legami sono tenuti insieme da meno di due elettroni ciascuno.
Riformulo.
Lasciamo legami e coppie solitarie esattamente come sono (salvo l’atomo centrale, ma che H debba avere intorno 2 elettroni e I 8 confido lo sappiate) e cambiamo le sole “etichette” che rappresentano gli elementi legati; ebbene, far questo basta perché in un caso ci sembri strano che la carica dell’anione non stia sull’atomo centrale (I3–) e nell’altro ci sembri strano, all’opposto, che vi possa perfino stare (FHF–).
Mi pare, se anche a voi fa questo effetto, che la cosa inviti un minimo di riflessione personale: non trovate?
Quale, quindi, il senso del segno di legame?
Conclusione
Quale, quindi, il senso di questo post?
Ricordare che il legame chimico, con ciò che vi sta dietro, sono concetti non banali e non ben rappresentabili entro le nozioni di base che necessariamente se ne danno, solitamente, nell’ambito del corso di Chimica Generale. Questo corso, per la stragrande maggioranza degli studenti, è uno dei pochissimi di Chimica del loro intero curriculum di studi.
È molto più importante che in quella sede lo studente si accosti ai concetti fondamentali: la tavola periodica, la polarità dei legami e delle molecole, la loro geometria, struttura e reattività. Questo è ciò che serve! Con questi strumenti, gli interessati non faticheranno certo ad approfondire (tipicamente in corsi ben più avanzati).
Quei medesimi strumenti di base, almeno per i Chimici, presentano in realtà un ricco sottotesto, che non è meno denso di concetti.
Facendo in questo modo, sì, comprensibilmente talvolta qualcosa può restare indietro.
Al netto dell’adeguare la complessità della materia agli obiettivi didattici, il Chimico non è così ingenuo, credulo e praticone come talvolta lo si vorrebbe dipingere: vi assicuro che non riponiamo affatto la nostra fede in vecchi dogmi che si possano sovvertire a cadenza bisettimanale; la Chimica non è questo!
Per altre discipline, ben ci si guarderebbe dal titolare che tutto va ripensato!
Restando sui titoli, delle due l’una: o vanno cambiati i libri per la scuola, o il legame C∙C conferma quanto già detto da Pauling!
Rimetto quindi al buonsenso di ciascuno ogni tentativo di riscrivere i libri di Chimica senza averli prima ben compresi ed interiorizzati.
E se su quei libri trovate ancora una ibridazione che coinvolge gli orbitali d per spiegare semplicemente la geometria molecolare dell’anione triioduro, ricordatevi che è assolutamente a fin di bene!
*Fiorentino per nascita e formazione, Matteo Savastano è Prof. Associato di Chimica Generale e Inorganica presso l’Università San Raffaele di Roma. Si interessa di chimica di coordinazione, supramolecolare, e di catalisi, prediligendo gli aspetti termodinamici e strutturali. Se dovesse scegliere una terna di elementi rappresentativi, questa sarebbe: I, Pd, Zr.
Bibliografia/Sitografia
[8] Savastano, M., Osman, H.H., Vegas, Á., and Manjón, F.J. (2024). Rethinking polyiodides: the role of electron-deficient multicenter bonds. Chem. Commun. https://doi.org/10.1039/D4CC02832E
[9] Svensson, P.H., and Kloo, L. (2003). Synthesis, Structure, and Bonding in Polyiodide and Metal Iodide−Iodine Systems. Chem. Rev. 103, 1649–1684. https://doi.org/10.1021/cr0204101.
[10] Rundle, R.E. (1963). On the Problem Structure of XeF4 and XeF2. J. Am. Chem. Soc. 85, 112–113. https://doi.org/10.1021/ja00884a026.
[11] Pimentel, G.C. (1951). The Bonding of Trihalide and Bifluoride Ions by the Molecular Orbital Method. J. Chem. Phys. 19, 446–448. https://doi.org/10.1063/1.1748245.
[12] Coulson, C.A. (1964). 276. The nature of the bonding in xenon fluorides and related molecules. J. Chem. Soc., 1442–1454. https://doi.org/10.1039/JR9640001442.
[13] Munzarová, M.L., and Hoffmann, R. (2002). Electron-Rich Three-Center Bonding: Role of s,p Interactions across the p-Block. J. Am. Chem. Soc. 124, 4787–4795. https://doi.org/10.1021/ja010897f.
[14] Maddox, B. (2003). The double helix and the “wronged heroine.” Nature 421, 407–408. https://doi.org/10.1038/nature01399.
[15] Editorial. Rosalind Franklin was so much more than the ‘wronged heroine’ of DNA (2020). Nature 583, 492–492. https://doi.org/10.1038/d41586-020-02144-4.
[16] Nomination Archive “Gilbert N. Lewis” at NobelPrize.org. https://www.nobelprize.org/nomination/archive/show_people.php?id=5441.
[17] Slater, J.C. (1959). Note on the interatomic spacings in the ions, I3−, FHF−. Acta Crystallographica 12, 197–200. https://doi.org/10.1107/S0365110X59000561.
[18] Mooney-Slater, R.C.L. (1959). The triiodide ion in tetraphenyl arsonium triiodide. Acta Crystallographica 12, 187–196. https://doi.org/10.1107/S0365110X5900055X.
[19] Savastano, M. (2021). Words in supramolecular chemistry: the ineffable advances of polyiodide chemistry. Dalton Trans. 50, 1142–1165. https://doi.org/10.1039/D0DT04091F.
Il Segno di Legame (–) ed il Legame C∙C. Parte prima.
Matteo Savastano*
Introduzione
Dato che è la prima volta che scrivo per questo blog, in una sorta di captatio benevolentiae, comincerò con qualcosa che tutti amate e conoscete: Primo Levi.
Se apriste “Il Sistema Periodico” laddove inizia lo “Zinco” [1], vi trovereste il ritratto di un collega, tale P., Professore di Chimica Generale e Inorganica. Leggereste che questi era un “vecchio scettico e ironico”, che scriveva testi “chiari fino all’ossessione, stringati, pregni del suo arcigno disprezzo per l’umanità in generale e per gli studenti pigri e sciocchi in particolare”. Il suo laboratorio didattico? “Una versione moderna e tecnica dei rituali selvaggi di iniziazione, in cui ogni suo suddito veniva bruscamente strappato al libro e al banco, e trapiantato in mezzo ai fumi che bruciano gli occhi, agli acidi che bruciano le mani, e agli eventi pratici che non quadrano con le teorie.”
“No” – concludeva Primo – “la chimica di P. non era il motore dell’Universo né la chiave del Vero”.
Il mio Professore di Chimica Generale fu invece B.
Gli aneddoti non mancherebbero, ma non siamo qui per questo.
Sapeva forse tutto B.?
No, certo, era pur sempre umano.
Mi disse a lezione tutto ciò che sapeva?
No, figuriamoci.
Da un lato non avrebbe mai potuto, non certo nel tempo di un corso annuale.
Dall’altro lato, come docente, non doveva.
Quello che era chiamato a fare era darci quegli strumenti che ci sarebbero serviti per proseguire gli studi. Questo è particolarmente vero proprio per i colleghi di settore: il Chimico Generale (e Inorganico) ha un po’ l’onore e l’onere di far da Cicerone agli studenti, specialmente al primo anno, particolarmente entro un sistema scolastico nel quale è verosimile che non ci si sia mai affacciati prima allo studio della Chimica.
Sulla scorta di Primo, riconosco ora che seppure la chimica di B. non fosse “il motore dell’Universo né la chiave del Vero”, neppure doveva esserlo: era quanto necessario a noi studenti; e tanto doveva bastare. È un po’ il nobile sforzo del professore di fisica delle superiori, che introduce gli studenti al concetto di velocità prima che questi abbiano la nozione di derivata: è didatticamente importante.
Volevo parlarvi un poco, oggi, del legame chimico, raccontandovi qualcosa che a me (e sospetto anche ad altri) ai tempi non fu detto altrettanto chiaramente.
Il casus narrandi mi arriva da un post del collega Tesauro che racconta del legame C∙C con un singolo elettrone, recentemente apparso su Nature [2]. Più che le parole del collega – ineccepibili, come già detto in un commento – mi spinge a scrivere lo stupore generato da questa notizia, particolarmente sulla stampa non strettamente scientifica (pure diversi autori vantano lauree di quell’area, vedete poco sotto), che in parte già grida alla scoperta rivoluzionaria e alla necessità di revisione dei libri di chimica. Vi propongo una breve rassegna qui [3] e noterete il grande fermento che si è prodotto. Potrei anche citare la regola di Bredt, ma vi rimando ad un altro post, dove anche questo è rimesso in prospettiva [4].
Insomma, pare che ultimamente in Chimica si infranga una “regola” al giorno… Sarà proprio così?
C’è poi un secondo tema. L’insegnamento di Chimica Generale è strumentale per molti percorsi di studio diversi. Alcune sfumature delle teorie di legame, che certo non sfuggono al Chimico, possono essere fraintese da chi abbia avuto un contatto solo fugace (e “didatticamente utilitaristico”) con la materia, per poi dedicarsi a tutt’altro. Parlando della stampa, si è già detto ampiamente su questo blog come certe notizie avrebbero bisogno di un poco di revisione scientifica, particolarmente chimica.
E dunque non dubito che un legame C∙C con un singolo elettrone – una cosa strana sì, ma strana abbastanza poco così che la si possa percepire tale senza scuotere troppo i modelli che abbiamo preformati in testa – possa essere per qualcuno “lo strappo nel cielo di carta” pirandelliano, e dunque apparire completamente rivoluzionario. Se vi fa questo effetto però, forse non vi siete accorti che la chimica del primo anno (purtroppo per molti studenti anche l’unica) non era “LA Chimica Generale”, come qualcuno crede, ma era piuttosto “la chimica generale: uno spettacolo di marionette per tutte le età”. Non vi siete cioè accorti che i grandi attori protagonisti, qui parleremo di legame covalente, avevano attaccati i fili.
E dunque è naturale che il cielo di qualcuno si possa strappare: in fondo, di carta lo è sempre stato! È lo scoprirlo tutto d’un tratto, come già nelle pagine di Pirandello, che atterrisce.
Cercherò qui di fare un minimo di chiarezza, concentrandomi su pochi concetti che so avete familiari.
Dopo, forse, un legame C∙C con un solo elettrone vi sembrerà meno strano.
Lewis e il Segno di Legame
Si insiste nel programma di Chimica Generale sulla differenza tra legame covalente puro e polare: una differenza che certamente tutti apprezzate e ricordate.
Vi faccio però notare come il segno di legame (–) resti immutato nei due casi.
Ovvero sia, noi valutiamo, ad esempio, che H-H ed H-F siano due situazioni ben distinte, ma nella rappresentazione questo non traspare. Se volete, è un ben noto sottinteso.
Lewis è in qualche maniera riuscito a farci rappresentare con uno stesso segno (–) situazioni che eguali non sono affatto.
Se H-H ed H-F sono ben diversi, ma non ci disturbiamo a cambiare il segno di legame, C-C e C∙C, dove il segno è stato invece solertemente cambiato, potrebbero forse essere meno diversi di come appaiono?
Vengo al caso specifico dello iodio e dei poliioduri, che conosco da vicino.
I2, è una molecola biatomica omonucleare. La differenza di elettronegatività è nulla e il legame è covalente puro. La distanza di legame, in fase solida, vale circa 2.72 Å, distanza questa che può, ad ogni buon conto, essere assunta come distanza di legame covalente I-I. Vieppiù – fatto importante assai per Lewis – ogni atomo raggiunge una configurazione otteziale.
Non vi stupirà (non così fino alla fine degli anni ’30 del Novecento, quando la cosa era ampiamente dibattuta [5], ancorché sia stata osservata per la prima volta intorno al 1814 [6]) che I2 in presenza dello ione ioduro (I–, otteziale pure lui, si noti bene), dà luogo allo ione I3–.
Ecco: che due specie chimiche otteziali reagiscano a darne una non otteziale non ci spiazza per niente? Se ogni atomo potesse avere d’intorno 8 o 10 elettroni, senza che questo gli faccia né caldo né freddo, l’intera teoria di Lewis dove andrebbe a finire?
Eppure, no, non ci spiazza!
Perché lo iodio ha a disposizione gli orbitali d – così ci ha detto il Professore di Chimica Generale (sorrido) – e dunque si può e si deve (pena dover sapere qualcosa in più sul legame chimico) pensare ad una ibridazione di tipo sp3d, con 3 coppie solitarie di elettroni sul piano e due sull’asse, da cui poi, in salsa VSEPR [7], arriva la spiegazione della geometria lineare della molecola.
In questo contesto, l’idea degli orbitali d scappò di bocca a Pauling, che poi maldestramente cercò di riprendersela, ma ormai – vittima della sua stessa fama e dell’ipse dixit – non vi riuscì bene. Così, dai libri di testo alla letteratura scientifica, i poliioduri sono notoriamente specie ipervalenti: cosa questa che, come verrò a dire e come i Chimici sanno bene, è notoriamente inesatta.
E dunque – esercizio – si scriva la formula di Lewis dell’anione I3–.
Figura 1. La formula di Lewis classica per l’anione I3–.
Se la si disegnasse (Figura 1) (e si sapesse come è fatto davvero l’anione) si noterebbero alcuni fatti strani:
- Il segno di legame è sempre e comunque “–” (questo ci rassicura oppure ci inquieta?);
Distanze
- La distanza di legame I-I è ben più lunga dell’atteso (circa 2.92 Å contro 2.72 Å di I2, un discreto aumento!);
- Se ha ragione Pauling. ovvero sia se la distanza di legame correla inversamente con l’ordine di legame (diciamo il numero di doppietti elettronici coinvolti nel legame), essendo il legame più lungo, l’ordine di legame in I3– deve essere più basso che in I2. In altri termini, il legame è tenuto in essere da meno di 2 elettroni: mutatis mutandis, una situazione non dissimile da C∙C, sebbene in [I–I–I]– questo non traspaia assolutamente dal segno di legame;
Cariche
- La formula di Lewis suggerisce le cariche formali (sempre a cura del Professore del primo anno) 0, -1, 0, ovvero sia che la carica dell’anione stia localizzata sull’atomo centrale. La cosa torna perché, in effetti, dalla formula di Lewis, è circondato da ben 10 elettroni (di cui 8 suoi, a fronte dei 7 che normalmente ha I, quando si proceda alla rottura omolitica dei legami covalenti);
- Peccato che le cariche reali calcolate e il modo di coordinazione sperimentale a centri metallici ci dicano invece il contrario, ovvero sia che il grosso della carica negativa sta sugli atomi laterali (Figura 2).
Figura 2. Le cariche formali per l’anione I3– (sopra) e quelle reali (sotto): qualcosa non torna. Reproduced with permission from ref. [8], copyright RSC 2024.
E dunque, o per un argomento o per l’altro, è certo ed appurato che il segno “–” non vuol dire la stessa cosa in I2 e in [I-I-I] – e che la formula di Lewis di I3– evidentemente ci inganna e sulle distanze e sulle cariche, contraddicendo i dati sperimentali.
(continua)
* Fiorentino per nascita e formazione, Matteo Savastano è Prof. Associato di Chimica Generale e Inorganica presso l’Università San Raffaele di Roma. Si interessa di chimica di coordinazione, supramolecolare, e di catalisi, prediligendo gli aspetti termodinamici e strutturali. Se dovesse scegliere una terna di elementi rappresentativi, questa sarebbe: I, Pd, Zr.
Bibliografia e sitografia
[1] Primo Levi, Zinco in Il Sistema Periodico, © 1975 e 1994 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
[2] Shimajiri, T. et al. Nature (2024). https://doi.org/10.1038/s41586-024-07965-1
[3]
a. Fontana, L. (2024). La scoperta del legame covalente a singolo elettrone: conferma sperimentale della teoria di Linus Pauling. TEMPO ITALIA meteo news. https://www.tempoitalia.it/2024/10/magazine/la-scoperta-del-legame-covalente-a-singolo-elettrone-conferma-sperimentale-della-teoria-di-linus-pauling/.
b. Redazione (2024). Scoperta rivoluzionaria: legame covalente singolo tra atomi di carbonio. Scienze Notizie. https://www.scienzenotizie.it/2024/10/03/scoperta-rivoluzionaria-legame-covalente-singolo-tra-atomi-di-carbonio-0094076.
c. D’Errico, C. (2024). Scoperto un nuovo legame chimico carbonio-carbonio. Scienza in rete. https://www.scienzainrete.it/articolo/scoperto-nuovo-legame-chimico-carbonio-carbonio/chiara-derrico/2024-10-14.
d. Un solo elettrone, un legame unico: ecco la scoperta del secolo (2024). Everyeye Tech. https://tech.everyeye.it/notizie/elettrone-legame-unico-scoperta-secolo-744744.html.
e. Una nuova scoperta potrebbe cambiare i libri di chimica per la scuola | Il Foglio https://www.ilfoglio.it/scienza/2024/09/26/news/una-nuova-scoperta-potrebbe-cambiare-i-libri-di-chimica-per-la-scuola-6982317/.
f. Una nuova scoperta può cambiare i libri di chimica a scuola (2024). https://sapere.virgilio.it/scuola/mondo-scuola/la-scoperta-che-puo-cambiare-i-libri-di-chimica-a-scuola.
g. Carmignani, S. (2024). È stato osservato per la prima volta un legame a singolo elettrone fra due atomi di carbonio. Wired Italia. https://www.wired.it/article/carbonio-legame-covalente-singolo-elettrone-studio/.
[4] Campanella, L. Tesauro, D. Come sintetizzare molecole “impossibili.” La Chimica e la Società. https://ilblogdellasci.wordpress.com/2024/11/13/come-sintetizzare-molecole-impossibili/.
[5] Jones, G. (1930). On the Existence and Behavior of Complex Polyiodides. J. Phys. Chem. 34, 673–691. https://doi.org/10.1021/j150310a001.
[6] Gay-Lussac, J.L. (1815). Mémoire sur l’Iode.
[7] Gillespie, R.J. (2008). Fifty years of the VSEPR model. Coordination Chemistry Reviews 252, 1315–1327. https://doi.org/10.1016/j.ccr.2007.07.007.
[8] Savastano, M., Osman, H.H., Vegas, Á., and Manjón, F.J. (2024). Rethinking polyiodides: the role of electron-deficient multicenter bonds. Chem. Commun. https://doi.org/10.1039/D4CC02832E.
La chimica dell’influenza
Claudio Della Volpe
Il titolo è un po’ sopra le righe, lo ammetto, mentre l’idea è solo di fare chiarezza su alcune cose basiche relative all’influenza, che guarda caso dipendono dalla chimica.
L’influenza è generata da virus di vario tipo; (sto ovviamente escludendo la malattia portata dal batterio Haemophilus influenzae, che è simile come sintomi, ma ad eziologia del tutto diversa); da Wikipedia apprendiamo che tutti i virus influenzali, fanno parte della famiglia degli Orthomyxoviridae (dal greco orthos per dritto e myxa per muco) una famiglia di virus a RNA a singolo filamento a polarità negativa ((-)ssRNA) (ossia deve essere trascritto nel suo “complemento acidonucleico” per poter agire); essa comprende sette generi di virus, identificati attraverso le differenze nelle loro nucleoproteine e nella proteina matrice; i più importanti sono i quattro indicati con una lettera dell’alfabeto:
A provoca tutte le pandemie (vedremo perché più avanti) e infetta l’uomo, i mammiferi e gli uccelli;
B infetta umani e pinnipedi (foche e trichechi);
C infetta l’essere umano e i suini
D infetta suini e bovini.
La classificazione dipende dalle caratteristiche di una proteina virale che aggancia le cellule umane, l’emoagglutinina usando un recettore di superficie delle cellule infettate che contiene acido sialico.
L’emoagglutinina è una proteina trimerica integrale di membrana. I tre monomeri identici sono avvolti a formare una spirale. Si chiama così perché fa aggregare i globuli rossi. Il simbolo è HA o H, dal nome inglese.
La neuramminidasi, detta anche Endo-alfa-sialidasi è un altro enzima presente sulla superficie del virus (simbolo breve NA o N) con un ruolo complementare a quello della Emoagglutinina; infatti il primo enzima, di forma bastoncellare si lega alle proteine e ai lipidi superficiali della cellula ospite contenenti acido sialico e media l’ingresso della particella virale prima nell’endosoma e poi, per modificazioni pH dipendenti (di questo parliamo dopo) dell’emoagglutinina, nel citosol. La neuraminidasi compie il lavoro contrario, ovvero, a replicazione virale avvenuta, forma sulla superficie virale una proiezione fungiforme e rimuove i residui sialici sulla cellula ospite permettendo al virus neoformato di uscire dalla cellula.
Per ultimo caratterizziamo invece l’acido sialico che è presente sulla superficie cellulare; si tratta di un monosaccaride a 9 atomi di carbonio, rappresentato nella figura qui sotto
Più precisamente questo è UNO dei composti indicati come acido sialico, il più comune appartenente a questo gruppo, l’acido N-acetilneuramminico (NANA).
Possiamo avere poi una serie di derivati N– o O– sostituiti del NANA, con ruoli molteplici sulla superficie cellulare; a noi basta sapere che è comunemente presente nelle cellule eucariote animali ma non nei batteri e questo è il motivo per cui è diventato la chiave di ingresso che il virus e la cellula si disputano.
Proprio per questo motivo i farmaci antinfluenzali EFFETTIVI sono di fatto degli inibitori dei due enzimi HA ed NA che bloccano direttamente l’azione del virus, o impedendogli di entrare nella cellula oppure impedendogli di perfezionare la uscita con conseguente rottura della cellula (intendo qui per esempio lo zanamivir o l’oseltamivir che inibiscono le NA).
Adesso siamo anche in grado di capire la classificazione dei virus e dei vaccini; tutte e due le proteine che abbiamo detto, HA e NA, hanno varie tipologie, ciascuna indicata da un numero e dunque le loro combinazioni classificano il virus specifico*.
Per esempio nel vaccino attuale di quest’anno abbiamo due tipologie di influenza la A e la B. Attualmente in Italia sono disponibili vaccini antinfluenzali quadrivalenti che contengono 2 virus di tipo A (H1N1 e H3N2) e 2 virus di tipo B. Invece l’influenza aviaria è caratterizzata da virus diversi ed infatti i due vaccini umani esistenti per le versioni del virus che dall’animale possono infettare l’uomo (non ancora l’uomo dall’uomo, come spiegato in un post precedente) contengono emoagglutinine di tipo 5 e la stessa neuroamminidasi tipo 1 e sono indicati dunque come H5N1; va da se che l’attuale vaccino per l’influenza comune non è efficace contro l’aviaria (come ho scritto nelle risposte al post precedente); l’aviaria è una influenza di tipo A, ma con un’altra combinazione di proteine (H5N1 invece di H1N1o H3N2) e dunque il vaccino comune non contiene la combinazione di antigeni giusta; spero di essere stato chiaro.
Al momento conosciamo 18 differenti tipi di emoagglutinina (da H1 a H18) e 11 differenti tipi di neuroamminidasi (da N1 a N11). Per esempio H1N1 è la tipologia dell’influenza spagnola che imperversò alla fine della 1° guerra mondiale con decine di milioni di morti.
Qui sotto vedete una mappa, sia pure incompleta, delle varie H-N e delle specie che ne sono serbatoio o con cui sono compatibili. Sono possibili circa 150 combinazioni H-N. Non è detto comunque che queste mappe si amplino per l’arrivo di una nuova mutazione della H5N1 di cui abbiamo parlato giorni fa.
Dicevo prima che non è detto che queste mappe si amplino per l’arrivo di una nuova mutazione della H5N1; perché di fatti ci sono delle condizioni più complesse perché una certa mutazione diventi pandemica. Nel 2009 ci fu una influenza A/H1N1, indicata allora col simbolo pH1N1, per dire che era diventata p, pandemica; ma come mai questa combinazione, già presente era mutata e dove per avere nuovamente dopo 100 anni un ruolo pandemico?
Introduciamo dunque un problema squisitamente biochimico: quali sono le condizioni perché una specie di virus diventi un problema pandemico?
Un lavoro con questo titolo fu pubblicato su PNAS nel 2016; e la risposta alla domanda fu questa:
Le pandemie influenzali si verificano diverse volte al secolo, causando milioni di morti. Affinché uno della miriade di virus influenzali zoonotici possa farlo, un virus che contiene un antigene di tipo emoagglutinina (HA) precedentemente non visto dalla maggior parte degli esseri umani deve evolvere le proprietà necessarie, anche se in gran parte sconosciute, per una diffusione respiratoria sostenuta tra le persone. Durante l’ingresso, la proteina di fusione virale prototipica HA lega i recettori e viene attivata in modo irreversibile da un basso pH negli endosomi per causare la fusione della membrana. Questi studi collegano una proprietà fondamentale, l’energia di attivazione di una proteina di fusione misurata come il suo pH di attivazione (stabilità acida), alla capacità dei virus influenzali zoonotici di causare una pandemia umana. Il monitoraggio della stabilità dell’HA dovrebbe migliorare la sorveglianza pre-pandemica e il controllo dei virus influenzali emergenti.
e ancora
Nel 2009, un virus dell’influenza suina (pH1N1) è passato all’uomo e si è diffuso a livello globale. In questa sede colleghiamo il potenziale pandemico del pH1N1 alla sua stabilità acida dell’HA, ovvero al pH a cui questa nanomacchina utilizzabile una sola volta si attiva per provocare la fusione o si inattiva in assenza di una membrana bersaglio. Negli isolati di sorveglianza, i nostri dati mostrano che i valori del pH di attivazione dell’HA sono diminuiti durante l’evoluzione dell’H1N1 dai precursori nei suini (pH 5,5-6,0), ai primi casi umani del 2009 (pH 5,5) e poi agli isolati umani successivi (pH 5,2-5,4). Un virus pH1N1 loss-of-function** con una mutazione HA1-Y17H destabilizzante (pH 6,0) è risultato meno patogenico nei topi e nei furetti, meno trasmissibile per contatto e non più trasmissibile per via aerea. Un revertante*** adattato ai furetti (HA1- H17Y/HA2-R106K) ha riacquistato la trasmissibilità per via aerea stabilizzando l’HA a un pH di attivazione di 5,3, simile a quello degli isolati adattati all’uomo della fine del 2009-2014. Nel complesso, questi studi rivelano che un’HA stabile (pH di attivazione ≤ 5,5) è necessaria per la patogenicità del virus influenzale pH1N1 e la trasmissibilità per via aerea nei furetti ed è associata a un potenziale pandemico nell’uomo.
In definitiva le condizioni chimico-fisiche in cui la emoagglutinina agisce sono determinanti per la sua azione; in questo caso un pH più acido ne consente l’intervento; un pH meno acido la blocca. La capacità di azione ai diversi pH è controllata dal pK della reazione che a sua volta dipende da una situazione più complessa della specifica sequenza amminoacidica della proteina in un certo punto. Anche minuscoli cambiamenti conformazionali possono avere effetto sul pK.
Terminiamo accennando alla questione della importanza relativa dei vari virus; come vedete sono gli uccelli selvatici il serbatoio naturale dei virus A; si vede nella figura sopra che solo essi infatti detengono TUTTE le varianti possibili; mentre per esempio i B sono importanti solo per l’uomo, dato che il serbatoio pinnipedi è limitato ed isolato (non abbiamo al momento allevamenti di foche, non ci viviamo a contatto).
Inoltre questo tipo di influenza muta 2–3 volte meno rapidamente del tipo A e di conseguenza ha una minore diversità genetica, un solo sottotipo. A causa di questa scarsa diversità antigenica, normalmente si acquisisce un certo grado di immunità all’influenza B. Tuttavia, anche l’influenza B muta abbastanza velocemente e questo fatto impedisce una immunità permanente. Il ridotto tasso di mutazione antigenica, combinata con una scarsa gamma di ospiti (che impedisce uno spostamento antigenico tra specie diverse) assicura l’impossibilità di pandemie di influenza B.
Il tipo C può dare luogo a epidemie locali, è a circolazione essenzialmente umana, ma in genere è meno comune rispetto agli altri tipi e normalmente sembra causare solo disturbi molto più blandi, e specialmente nei bambini. Probabilmente questo dipende dalle sue caratteristiche strutturali: non possiede infatti le proteine HA ed NA, ma un singolo tipo di fattore proteico denominato NEF che svolge entrambi i ruoli delle proteine HA ed NA.
Credo di aver esaurito il mio serbatoio di curiosità sulla chimica dell’influenza e spero di avervi interessato.
Vaccinatevi comunque, la comune influenza è mortale in Italia o direttamente o indirettamente in 8000 casi all’anno, il che corrisponde più o meno ad un caso su mille.
Note.
* I virus influenzali hanno una nomenclatura standard che comprende il tipo di virus, la specie da cui è stato isolato (se non umano), il luogo in cui è stato isolato, il numero di isolato, l’anno di isolato e, solo per i virus influenzali A, il sottotipo HA e NA. Pertanto, A/Panama/2007/1999(H3N2) è l’isolato numero 2007 di un virus A dell’influenza umana prelevato nel paese di Panama nel 1999, con un sottotipo HA 3 e un sottotipo NA 2.
** Le conseguenze funzionali delle variazioni genetiche comprendono due ampie categorie: le varianti gain-of-function (GOF), caratterizzate da un’attività proteica potenziata o nuova, e le varianti loss-of-function (LOF), che determinano una riduzione parziale o completa dell’attività proteica.
*** che ha subito cioè reversione genetica; la reversione genetica è una retromutazione che ristabilisce il fenotipo originario, ma si noti che non necessariamente tale fenomeno è associato alla ricostituzione del genotipo originale.
Materiali consultati oltre quelli già citati:
le voci di Wikipedia corrispondenti ai termini usati, in particolare “influenzavirus” , “Orthomyxoviridae”
https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC3074182/
per chiarimenti sui vaccini
Cosa è la coltivazione del carbonio?
Luigi Campanella, già Presidente SCI
La crescita e lo sviluppo di un sistema forestale dipendono, oltre che dalla manutenzione e dalle condizioni ambientali, anche dal suolo dove è collocato. L”implementazione di misure di protezione del suolo come colture di copertura, colture intercalari, lavorazione conservativa del suolo e l’uso del digestato (in sostituzione del concime chimico di sintesi o di estrazione minerale) o ancora la diffusione di pratiche di agroforestazione e agricoltura mista, integrando alberi o arbusti nella gestione delle colture, sono tra i principi che possono guidare la conservazione e il ripristino di sostanza organica nel suolo. Si contribuisce così alla fertilità ed alla resilienza ai cambiamenti climatici ed alle fitopatologie.
In questo contesto, il carbon farming si conferma uno degli strumenti più promettenti per contribuire al raggiungimento degli obiettivi climatici europei. E questa una strategia che non solo contrasta i cambiamenti climatici, ma ha l’obiettivo di premiare anche gli agricoltori per l’adozione di pratiche ecologiche, integrando il loro reddito.
Per Carbon Farming intendiamo un sistema agricolo in grado di sfruttare la naturale capacità del suolo di immagazzinare anidride carbonica, il principale gas ad effetto serra se consideriamo i volumi, e di utilizzarlo sotto forma di sostanza organica a vantaggio della fertilità del suolo. Con il carbon farming si massimizza la produzione di biomassa secca in campo e se ne riducono le perdite. Un agricoltore che decida di modificare in questo senso le tecniche di coltivazione dei propri terreni, potrebbe aumentare sensibilmente le capacità di questi di assorbire CO2 dall’atmosfera e di incamerarla nel suolo. Secondo le stime riportate in letteratura in una stagione si possono sequestrare 2-2,5 tonnellate di CO2 ad ettaro, pari alle emissioni prodotte da una macchina che percorre circa 15-19mila chilometri. Gli agricoltori potrebbero essere stimolati verso questa procedura sulla base della Carbon Farming Iniative della Commissione Europea che prevede “di avviare iniziative pilota a livello locale, anche nell’ambito degli “eco-schemi” previsti dalla Politica agricola comune (PAC), per poter individuare criticità e buone pratiche da replicare su più ampia scala. Secondo la Commissione europea, questi schemi potrebbero diventare una significativa fonte di reddito per gli agricoltori europei: complessivamente fra i 38 e i 58 miliardi di euro, per singolo agricoltore 12-15 euro per ettaro che sequestra 2-2,5 ton di CO2, valori che sembrano marginali, ma che riportati sugli ordini di grandezza delle superfici coltivate in Italia iniziano a diventare davvero significativi.
C’è poi purtroppo da guardarsi, e quindi da proteggersi, dalle truffe perpetrate a partire da queste opportunità. All’inizio del 2023 il Guardian ha pubblicato un articolo che suggerisce che oltre il 90 % dei crediti di carbonio è privo di valore. Si tratta di crediti rilasciati a progetti di prevenzione della deforestazione nelle foreste pluviali, che possono essere usati per compensare emissioni di gas serra prodotte altrove e che rappresentano essenzialmente una promessa di protezione.
L’odore e la geometria delle cimici.
Claudio Della Volpe
Conoscevo la cimice verde ma non sapevo delle sue strane proprietà finché non ne ho schiacciata una.
Ero ancora un ragazzino allora, ma le cimici fanno parte del nostro sistema ecologico da molto tempo anche se sembra siano originarie dell’Africa e dell’Asia.
Non sono pericolose per l’uomo, sono insetti fitofagi, ossia si nutrono di piante, specie di pomodori e peperoni, ai quali il loro morso conferisce un sapore amaro ed un colore improprio. Inoltre le cimici definite “puzzolenti” emettono un odore caratteristico come meccanismo di difesa, scoraggiando i predatori e segnalando così il pericolo ad altre cimici “puzzolenti”.
Negli anni recenti alle cimici verdi si sono aggiunte le cimici cosiddette asiatiche, loro parenti; entrambe oltre ad attaccare le colture hanno la antipatica abitudine di rifugiarsi in luoghi caldi quando viene l’inverno, e così ce le troviamo anche in casa, nei posti più impensati, a preparare la nidiata dell’anno dopo.
Le cimici verdi e quelle asiatiche fanno parte della famiglia dei pentatomidi, con 900 generi e 2700 specie.
Da wikipedia https://en.wikipedia.org/wiki/Pentatomidae
Il termine inglese “shield insects” insetto scudo si riferisce alla forma corporea generalizzata degli insetti adulti in queste famiglie che ricorda uno scudo araldico se visto dall’alto. Il nome americano “cimice” (NdA stink bug, cimice puzzolente, dove “bug” è un termine polisemico, ossia con più significati, un po’ come quando noi diciamo “un coso”) è specifico dei Pentatomidae e si riferisce alla loro capacità di rilasciare uno spray difensivo pungente quando minacciati, disturbati o schiacciati. La composizione di questo spray può variare tra le specie e anche in base al sesso o all’età, [ 7 ] ma generalmente comprende aldeidi e alcani . Le descrizioni degli odori variano ampiamente e includono oleoso, polveroso, legnoso e terroso e simile al coriandolo . [ 8 ] [ 9 ] In alcune specie, il liquido contiene composti di cianuro e un profumo di mandorla rancida, usati per proteggersi e scoraggiare i predatori. [ 8 ]
Il nome scientifico Pentatomidi si riferisce invece al fatto che le loro antenne sono divise in 5 parti.
Le nidiate si presentano con disposizioni di uova che hanno spesso una geometria sorprendente, come mostrato in figura:
Uova di cimice asiatica
Uova di cimice verde
Schiusa di cimice asiatica. Notate l’aspetto incredibilmente regolare delle singole uova, tale da rasentare una sorta di marchio; il segno scuro sono le zampe che fuoriescono dall’uovo, che, se ci fate caso, è già sezionato circolarmente.
https://pherobase.com/database/species/species-Nezara-viridula.php
Cimice asiatica, Halyomorpha halys
I pentatomidi ed in particolare la cimice asiatica rilasciano come difesa dai predatori dei composti fortemente odorosi e che esibiscono anche proprietà antibatteriche. Il Trans-2-ottenale e il trans-2-decenale sono le più importanti “aldeidi di allarme” responsabili dell’odore pestilenziale.
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/27656692/
Cimice verde, Nezara viridula
Estate (sopra) Inverno (sotto)
https://msn.visitmuve.it/it/ricerca/schede-tematiche/temi/cimice-asiatica/
Anche per la cimice verde e fin dal 1965 si conosce la composizione del pestifero odore.
Mediante una combinazione di cromatografia gassosa, su carta e su strato sottile, e di spettrometria a infrarossi, visibile, ultravioletta, di massa e di risonanza magnetica nucleare, sono stati individuati e studiati venti componenti nella secrezione raccolta direttamente dal serbatoio di immagazzinamento dell’odore di Nezara viridula. Sono state suggerite le strutture di diciotto composti, che di norma costituivano oltre il 99.9 % del profumo. Tre composti precedentemente identificati sono stati confermati come trans-2-esenale (riportato qui sotto), trans-2-decenale e n-tridecano (idrocarburo lineare a 13 atomi di carbonio).
Altri componenti principali (1 % o più) identificati sono il 4-cheto-trans-2-esenale, l’acetato di trans-2-esenile, l’acetato di trans-2-decenile e n-dodecano.
Journal of Insect Physiology 53 (2007) 639–648
Come si vede le aldeidi e gli idrocarburi più importanti implicati sono quasi gli stessi nelle due cimici.
E’ secondo me interessante la presenza del tridecano, un idrocarburo lineare con un numero dispari di atomi di carbonio che è poco comune anche in applicazioni tecnologiche e che possiede come altri idrocarburi lineari un odore rilevabile anche dal naso umano (si pensi all’eptano che possiede però un profumo piacevole).
https://pherobase.com/database/species/species-Nezara-viridula.php
In definitiva i prodotti di difesa delle cimici sono aldeidi e idrocarburi, non sono velenosi, almeno non nelle quantità emesse, ma sono sgradevoli e possono essere irritanti.
Ad una sola mutazione dalla catastrofe.
Claudio Della Volpe
Nel 2024, diverse infezioni umane con virus dell’influenza bovina H5N1 di clade 2.3.4.4b ad alta patogenicità negli Stati Uniti hanno sollevato preoccupazioni sulla loro capacità di trasmissione da bovino a uomo o addirittura da uomo a uomo. In questo studio, l’analisi dell’emoagglutinina (HA) del primo virus H5N1 bovino che ha infettato l’uomo (A/Texas/37/2024, Texas) ha rivelato una preferenza di legame con i recettori di tipo aviario. In particolare, una sostituzione Gln226Leu ha spostato la specificità di legame della Texas HA verso i recettori di tipo umano, che è stata potenziata se combinata con una mutazione Asn224Lys. Le strutture cristalline della Texas HA con l’analogo recettoriale aviario LSTa e del suo mutante Gln226Leu con l’analogo recettoriale umano LSTc hanno chiarito le basi strutturali di questo riconoscimento recettoriale preferenziale. Questi risultati evidenziano la necessità di una continua sorveglianza delle mutazioni emergenti nei virus H5N1 aviari e bovini del clade 2.3.4.4b.
https://www.science.org/doi/10.1126/science.adt0180
Questo riassunto del lavoro pubblicato su Science il 5 dicembre ci racconta i prodromi della prossima pandemia da spillover: siamo a una sola mutazione di distanza dalla prossima pandemia. Pare infatti che una sola mutazione renderebbe il virus dell’influenza aviaria H5N1 in grado di saltare sull’uomo, con conseguenze pericolosissime. Di solito perché un virus faccia il salto d’ospite sono necessarie diverse mutazioni. Il fatto che in questo caso ne basti una sola ci dice che stiamo giocando alla roulette russa.
Per la precisione, se prendiamo il gene virale dell’emoagglutinina, che serve al virus per entrare nell’ospite (l’H di H5), questo gene ha le istruzioni per una certa sequenza di amminoacidi. In posizione 226, cioe’ il duecentoventiseiesimo amminoacido della catena proteica, c’è una Glutammina. La sostituzione di quella Glutammina (polare) con una Leucina (non polare) renderebbe il virus in grado di saltare sull’uomo, dove potrebbe essere letale nel 30% delle persone colpite ( dati raccolti finora ; il covid, in confronto, aveva all’inizio una letalita’ intorno allo 0.5%). Una seconda mutazione, la Glicina 228 che muta in Serina, porterebbe allo stesso risultato. Tutte e due non ne parliamo proprio.
Il virus dell’influenza si attacca al suo ospite tramite una proteina chiamata emoagglutinina che si lega ai recettori dei glicani sulla superficie delle cellule ospiti. I glicani sono catene di molecole di zucchero sulle proteine della superficie cellulare che possono fungere da siti di legame per alcuni virus. I virus dell’influenza aviaria (degli uccelli) come H5N1 infettano principalmente gli ospiti con recettori dei glicani contenenti acido sialico presenti negli uccelli (recettori di tipo aviario). Mentre i virus raramente si adattano agli esseri umani, se si evolvono per riconoscere i recettori dei glicani sialilati presenti nelle persone (recettori di tipo umano), potrebbero acquisire la capacità di infettare e possibilmente trasmettere tra esseri umani……..
Per il loro studio, il team di ricerca ha introdotto diverse mutazioni nella proteina emoagglutinina H5N1 2.3.4.4b che era stata coinvolta nei cambiamenti di specificità del recettore nei precedenti virus aviari. Queste mutazioni sono state selezionate per imitare i cambiamenti genetici che potrebbero verificarsi naturalmente. Quando il team ha valutato l’impatto di una di queste mutazioni, Q226L, sulla capacità del virus di legarsi ai recettori di tipo umano, hanno scoperto che quella mutazione ha migliorato significativamente il modo in cui il virus si è attaccato ai recettori dei glicani, che rappresentano quelli trovati nelle cellule umane.
https://www.quotidianosanita.it/stampa_articolo.php?articolo_id=126330
Quanto è probabile che questo accada? Lo studio non fa una stima di probabilità, ma guardando il codice genetico basta che una base azotata (uracile) venga sostituita con un’altra (adenina) e in un virus a RNA questo accade frequentemente.
Sinora le persone colpite per contatto con le mucche texane avevano sintomi lievi perché il virus ha la chiave per entrare nelle cellule degli uccelli, non in quelle umane, quindi anche se infetta fa pochi danni. Ma se la chiave mutasse in modo da combaciare perfettamente con la serratura umana, sarebbero guai.
Sul fronte delle buone notizie, c’è un vaccino. Pronto, ma ovviamente non testato, perché occorre aspettare e vedere esattamente come muta il virus per affinare il vaccino, a RNA come quello del covid. Se non vi fidaste dei nuovi vaccini perché siete novax molto probabilmente voi morireste e la vostra sequenza si estinguerebbe.
Il virus ad alta patogenicità H5N1, detto dell’influenza aviaria, è comparso per la prima volta nel 1996 in estremo oriente (Hong Kong). È un virus che colpisce principalmente gli uccelli, che lo hanno portato in giro in tutto il mondo grazie alle migrazioni. Quando è arrivato in America, nel 2006 circa, piano piano ha acquisito nuove mutazioni. Tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 ha acquisito la capacita di infettare i bovini, passando direttamente da mucca a mucca. Ma questo ceppo al momento è poco pericoloso, e non salta sull’uomo, salvo acquisire le mutazioni di cui si parla.
Il nuovo dato è il caso della ragazzina canadese che si è salvata per un soffio dopo che il virus le ha colpito polmoni, reni e sangue. Intubata 20 giorni col respiratore, in dialisi e con trasfusioni. Sembra anche che i farmaci antivirali non funzionino. Questa non è una invenzione, è comparsa il 31 dicembre su New England Journal of Medicine.
https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2415890
Ed è questo il lavoro che fa preoccupare di più in quanto il virus responsabile del caso canadese ha una modifica esattamente in posizione Q226.
Come vedete la previsione del 5 dicembre era già realtà nell’infezione analizzata e pubblicata il 31 dicembre. Dunque vaccinatevi appena potrete.
Aggiungo che ci sono delle limitazioni che ha senso considerare e che riporto integralmente:
In questo studio non abbiamo analizzato tutti i fattori associati alla trasmissione umana dei virus influenzali zoonotici. Come discusso in precedenza, la specificità dei recettori è un fattore chiave, ma non l’unico richiesto per la trasmissione da uomo a uomo dei virus influenzali. Anche il pH di fusione dell’HA è importante per la trasmissione e la stabilità dell’HA (49). Il pH di fusione di una recente HA di un virus bovino (A/dairy cattle/Texas/ 24-008749-001-original/2024) è stato determinato a 5,9, un valore superiore a quello associato a un’efficiente trasmissione per via aerea (pH < 5,5) (49, 71). Anche la neuraminidasi NA svolge un ruolo chiave nell’infezione, così come l’equilibrio HA/NA legato al legame con i recettori da parte dell’HA e all’attività di distruzione dei recettori da parte della NA. (72, 73).
Alla presentazione del suo ultimo libro sul cancro (settembre scorso) David Quammen aveva detto: “La gente mi chiede: qual è il virus che costituisce la più grande minaccia di pandemia dopo il Covid? In questo momento è l’influenza aviaria, H5N1, che sta uccidendo milioni di uccelli selvatici e domestici e ora circola anche nei mammiferi: leoni marini, foche, mucche da latte negli Stati Uniti”
Non ci sono scuse, non è iniziata nei selvaggi mercati cinesi, (o in qualche laboratorio segreto) ma nei moderni allevamenti americani di mucche: nessuna scusa stavolta.
NdA parte del testo viene da una comunicazione di Lisa Signorile, biologa, divulgatrice, autrice di un libro sul gatto. https://www.facebook.com/share/p/1BGybTXM5f/
Si veda anche un articolo molto chiaro sul tema pubblicato su quotidianosanità.it:
https://www.quotidianosanita.it/stampa_articolo.php?articolo_id=126330
Ed infine l’intervista ad Ilaria Capua https://tg24.sky.it/salute-e-benessere/2025/01/03/influenza-aviaria-trasmissione-uomo
Il disastro di Bhopal 40 anni dopo
Diego Tesauro
40 anni fa tra il 2 e il 3 dicembre 1984 si verificava il disastro di Bhopal nello stato indiano del Madhya Pradesh, la più grande catastrofe provocata da un’industria chimica, la Union Carbide. Forse dopo Hiroshima e Nagasaki si riscontrò il più alto numero di vittime per opera di un intervento antropico: si contarono ufficialmente 3787 morti nelle prime ore dopo l’incidente, ma si stima che oltre 22.000 persone siano decedute negli anni a seguito della catastrofe ed oltre 500.000 persone abbiano avuto conclamati danni alla salute.
Lo stabilimento costruito nel 1969 produceva un insetticida, il Sevin o Carbaryl (1-naftilmetilcarbammato), del gruppo dei carbammati. Questa classe di insetticidi agisce quale inibitore, lentamente irreversibile, dell’enzima acetilcolinesterasi (AChE). La loro struttura assomiglia al neurotrasmettitore acetilcolina che viene idrolizzata dall’enzima nell’arco di microsecondi acetilando la serina del sito attivo (Figura1). Se la serina del sito attivo invece viene carbamilata, subisce la fase finale di idrolisi molto lentamente (nell’arco dei minuti).
Figura 1 I) struttura dell’acetilcolina e reazione dell’acetilcolina (ACh (I)) con la serina del sito attivo dell’acetilcolinesterasi (AChE) ii) Schema di reazione del Carbaryl con lo stesso sito attivo. (adattata da Physiologically based pharmacokinetic modeling of organo-phosphorus and carbamate pesticides. In Toxicology of Organophosphate and Carbamate Compounds (Gupta RC, ed.). Academic Press/Elsevier, Amsterdam, pp. 103–25).
I carbammati interferiscono pertanto con il sistema nervoso colinergico, in quanto l’enzima deputato alla degradazione (idrolisi) del neurotrasmettitore acetilcolina, essendo carbamilato, non può ospitare la molecola nel sito attivo. Si produce quindi un eccesso di acetilcolina che causa la morte dell’insetto perché gli effetti dell’aceticolina non possono essere interrotti.
A causare però il disastro non fu il Sevin, ma un suo precursore sintetico l’isocianato di metile (MIC). Infatti all’epoca il Sevin era sintetizzato dalla reazione dell’1 naftolo con il MIC (Figura 2).
Figura 2 Sintesi del Sevin condotta a Bhopal
Successivamente, proprio a seguito del disastro di Bhopal il processo sintetico fu modificato: in alternativa, l’1-naftolo viene trattato con un eccesso di fosgene per produrre 1-naftilcloroformiato, che viene poi convertito in Carbaryl per reazione con la metilammina (Figura 3).
Figura 3 Sintesi del Sevin alternativa
Per lunghi anni il MIC era stato importato, ma dal 1979 lo stabilimento indiano lo sintetizzava in loco dal fosgene e la metilammina. A seguito però di una carestia in India ed una sovrapproduzione mondiale, dal 1982 la sintesi del Sevin era stata per lunghi periodi interrotta, ma erano rimasti tre serbatoi di isocianato di metile che andavano periodicamente controllati e mantenuti. Bisognava evitare infiltrazioni di acqua la quale reagisce esotermicamente con questo composto per formare la 1,3-dimetilurea e biossido di carbonio con sviluppo di calore (325 calorie, per grammo di MIC) (Figura 4).
Figura 4 Reazione a due stadi di idrolisi dell’isocianato per produrre la 1,3dimetilurea
Inoltre i serbatoi andavano continuamente raffreddati. L’elevata temperatura infatti poteva provocare l’ebollizione del liquido: infatti a pressione ambiente il MIC bolle a soli 38°C. Il 2 dicembre 1984 alle ore 23 venne rilevato in sala controllo un lieve aumento di pressione nel serbatoio 610 e contemporaneamente venne segnalata una perdita di MIC vicino alla torre di neutralizzazione, ma non si individuò l’origine. Verso mezzanotte un rapido aumento di pressione nel serbatoio causò l’apertura della valvola di sicurezza. Venne avviata dalla sala controllo la pompa di ricircolo della soda caustica della torre di neutralizzazione, ma questa si rivelò inadeguata per le alte portate e le alte pressioni.
La linea che convogliava il gas in torcia era fuori uso essendo in manutenzione da circa una settimana, per cui il gas si disperse direttamente nell’atmosfera pertanto interi quartieri della città, in particolare i più poveri, furono investiti dai vapori del MIC. All’epoca non si aveva una piena conoscenza della tossicità di questo composto e come agisse, ma era stato stabilito dall’American Conference on Government Industrial Hygienists che Il valore limite di soglia era di 0,02 ppm. Inoltre non si aveva una conoscenza dei meccanismi di interazioni nè di possibili antidoti. Anzi fu somministrato alla popolazione il tiosolfato di sodio pensando erroneamente che la fuoriuscita fosse di acido cianidrico. La popolazione di Bhopal rimase così esposta al MIC che provocò edema polmonari, prima causa di morte nella maggior parte dei casi, con molti decessi derivanti da infezioni respiratorie secondarie come bronchite e polmonite bronchiale.
Altri effetti osservati dall’esposizione acuta per inalazione del MIC nell’uomo sono, oltre le difficoltà respiratorie, cecità, nausea, gastrite, sudorazione, febbre, brividi, danni al fegato ed ai reni. I sopravvissuti continuano a mostrare danni ai polmoni (ad esempio, lesioni broncoalveolari e diminuzione funzione polmonare) e gli occhi (ad esempio, perdita della vista, perdita dell’acuità visiva e cataratta). Quasi il 40% delle donne incinte al momento del disastro perse il feto. Gli effetti cronici includono complicanze polmonari, ginecologiche, oculari, neurologiche e di altro tipo. Anche i metaboliti del MIC sono tossici ed alcuni, come la trimetilammina, esercitano una tossicità selettiva sulla progenie maschile.
Figura 5 Stato in cui versa lo stabilimento dell’Union Carbide a Bhopal
In questi anni quindi sono avanzate le ricerche scientifiche sulle proprietà e la tossicologia del MIC (vedi Box). Ma cosa è avvenuto successivamente alla catastrofe a Bhopal? La Union Carbide fu accusata di negligenza ed a seguito della riduzione dei costi di manutenzione responsabile del disastro. Penalmente solo nel 2008 a pagare furono otto ex dipendenti dello stabilimento, tutti indiani. L’ex amministratore delegato della società Warren Anderson, cittadino americano, fermato da parte delle autorità indiane, fu rilasciato poche ore dopo il suo arresto e sotto la pressione di funzionari statunitensi nello stesso 1984.
La Union Carbide ed il governo indiano raggiunsero un accordo di 470 milioni di dollari nel 1989, con ciascun sopravvissuto che avrebbe ricevuto 500 dollari a titolo di risarcimento…. Questa cifra è stata concordata senza consultare i sopravvissuti ed è stata concepita solo per compensare l’impatto a breve termine sui dipendenti, non il danno duraturo per donne, bambini e anziani. L’area dello stabilimento fu abbandonata (figura 5) e perdura il grave pericolo ecologico nell’area; infatti elevati quantità di rifiuti altamente tossici sono stoccati nei locali della fabbrica ed hanno contaminato il suolo e l’acqua. Un report di Greenpeace del 2008 riporta che i livelli di mercurio erano ” 6 milioni di volte” superiori ai livelli attesi, nelle acque sotterranee erano presenti composti organoclorurati a livelli elevati, come il tricloroetilene, in quantità 50 volte superiori ai limiti di sicurezza specificati dall’Environmental Protection Agency (EPA) degli Stati Uniti. Il disastro di Bhopal ha messo in luce i pericoli inerenti alle industrie chimiche e la necessità di normative e supervisione rigorose per garantire la sicurezza.
Nel 2001 la Union Carbide venne acquisita dalla Dow Chemical, che non avendo direttamente provocato il disastro, affermò che l’accordo la esonerava da ulteriori responsabilità legali. Nel 2010, un collegio di cinque giudici della Corte Suprema indiana ha respinto la richiesta di revisione, affermando che “la questione del risarcimento non può essere affrontata tre decenni dopo l’accordo”. Ma la lotta dei comitati di sopravvissuti per la giustizia perdura a distanza di 40 anni.
Un precedente post sul tema era stato pubblicato qui .
Box di approfondimento sul meccanismo del MIC.