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S.O.S dall’astronave Terra: usare fonti rinnovabili (e altre storie)
Vincenzo Balzani, Professore Emerito UniBo
questo articolo è stato pubblicato in parte su Bo7
Quando si guarda la Terra da lontano, come ci permettono di fare le foto scattate da satelliti artificiali, ci si rende conto di quale sia la nostra condizione: siamo passeggeri di una specie di astronave che viaggia nell’infinità dell’Universo. È un’astronave del tutto speciale perché non potrà mai atterrare da nessuna parte, non potrà mai fermarsi a una stazione di servizio per far rifornimento o scaricare rifiuti. Se qualcosa non funziona, dobbiamo rimediare da soli, senza neppur scendere.
Gli scienziati da tempo ci avvertono che è in atto un pericoloso cambiamento: aumenta la temperatura del globo (il 21 luglio è stata la giornata più calda di sempre) e sta cambiando il clima, con conseguenze molto gravi. È un effetto causato dall’uso dei combustibili fossili, la nostra principale fonte di energia. Ogni secondo, e i secondi passano in fretta, nel mondo consumiamo 250 tonnellate di carbone, 1000 barili di petrolio e 105 mila metri cubi di gas, producendo e immettendo nell’atmosfera, sempre ogni secondo, circa 1000 tonnellate di anidride carbonica (CO2): un gas che avvolge il globo come un manto che permette ai raggi solari di scaldare la superficie del pianeta, impedendo al calore di uscire nello spazio. Questo fenomeno, chiamato “effetto serra”, provoca un riscaldamento della Terra e pesanti cambiamenti climatici.
Gli scienziati dell’IPCC (International Pannel on Climate Change) ci dicono che c’è solo un modo per arginare questa situazione, che diventa ogni giorno più grave: smettere di usare i combustibili fossili e sviluppare le energie rinnovabili del Sole, del vento e dell’acqua. La transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, però, è fortemente ostacolata da interessi economici e politici. Il segretario dell’ONU Guterres ha più volte ammonito che “il mondo è fuori rotta” e gli scienziati hanno lanciato “un’ultima chiamata” per salvare il pianeta.
Chi si aspettava un Piano del Governo per l’energia e il clima capace di riportare l’Italia nella “rotta giusta” e di rispondere “all’ultima chiamata” degli scienziati, anche quest’anno è rimasto molto deluso. L’Italia, invece di adagiarsi sulle direttive e sugli obiettivi europei, dovrebbe attuare programmi più ambiziosi, in linea con le sue possibilità. Ha abbondanti energie rinnovabili e una forte industria manufatturiera che permette di utilizzarle per ottenere, senza causare inquinamento, elettricità, che è la fonte energetica più pregiata. Invece, continuiamo a importare combustibili fossili che bruciamo per ottenere calore, dimenticando l’inquinamento e i cambiamenti climatici di cui sono responsabili e che colpiscono duramente il nostro territorio, proprio nella sua vocazione turistica e culturale. Dovremmo aver capito che ormai abbiamo “bruciato” più di quello che si doveva “bruciare” e anche che l’agricoltura deve essere utilizzata solo per l’alimentazione e non per produrre biocombustibili.
La transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili è non solo necessaria, ma inevitabile. Per il nostro Paese assecondarla o, ancor meglio, anticiparla sarebbe una grande opportunità di crescita economica e di riduzione dei costi causati dai cambiamenti climatici.
La transizione energetica, pur necessaria, non è però sufficiente per garantire un futuro sostenibile. Perché c’è un problema più generale, che investe tutte le risorse materiali. Oggi il mondo funziona con la cosiddetta economia lineare: prendiamo le risorse dalla Terra, costruiamo quello che ci serve (spesso anche quello che non serve) lo usiamo e alla fine lo gettiamo nei rifiuti: è l’economia dell’usa e getta, il consumismo. Un sistema economico di questo tipo non è sostenibile perché è basato su due falsità: l’esistenza di una quantità infinita di risorse a cui attingere e la possibilità di eliminare i rifiuti. Se vogliamo raggiungere almeno un certo grado di sostenibilità, bisogna passare dall’economia lineare dell’usa e getta all’economia circolare, cioè prelevare dalla Terra le risorse nella minima quantità possibile, usarle in modo intelligente per produrre cose che funzionino bene, che se si rompano possano essere riparate o usate per altri scopi, e che infine vengano raccolte in modo differenziato per poterle riciclare e ottenere così nuove risorse.
Ma anche questa seconda transizione, dall’economia lineare all’economia circolare non può garantirci un futuro sostenibile se non ci abituiamo a consumare di meno, a vivere adottando il criterio della sufficienza e della sobrietà, che non vuol dire essere meno felici.
Novità PFAS
Ethical consumer è una rivista inglese che si pone l’obiettivo di informare il consumatore sugli effetti del suo consumo, diciamo che si batte per un consumo consapevole, una cosa vicina a Altroconsumo in Italia. Recentemente è uscito un articolo sulla questione PFAS e sui prodotti ad essi connessi che interessano di più il consumatore privato, i vestiti.
La rivista ha esaminato 41 aziende che producono abbigliamento e attrezzature per l’outdoor venduta in Gran Bretagna – dalle giacche agli scarponi agli zaini – e ha scoperto che l’82% dei brand utilizza ancora sostanze per- e polifluoroalchiliche. Jane Turner, ricercatrice di Ethical Consumer, ha dichiarato: “L’irreversibile contaminazione globale e l’estrema tossicità delle ‘sostanze chimiche per sempre’ sono indiscusse da anni, ma la maggior parte delle aziende di abbigliamento outdoor continua a usarle inutilmente e ad aumentare il carico di inquinamento dei PFAS. Questo non è accettabile e le aziende devono smettere di usarli ora. I consumatori dovrebbero acquistare solo dalle aziende responsabili che hanno smesso di usare i PFAS”.
Quando questi prodotti vengono impiegati e si usurano, il processo di invecchiamento “fa sì che gli escursionisti che indossano l’attrezzatura da outdoor disperdano alcune sostanze chimiche nell’ambiente, anche se la maggior parte dell’inquinamento da PFAS si verifica durante la produzione delle sostanze chimiche, quando vengono applicate ai tessuti e quando un prodotto viene gettato via”, ricorda il Guardian. Sarebbe il caso di farsi sentire anche noi in Italia. Che ne dite?
Link dell’articolo e dell’indagine:
https://www.ethicalconsumer.org/fashion-clothing/problem-forever-chemicals-waterproof-clothing
https://www.ethicalconsumer.org/fashion-clothing/shopping-guide/ethical-outdoor-clothing
La chimica della guerra e altre storie
Claudio Della Volpe
Qualche giorno fa un collega (Stefano Antoniutti) mi ha segnalato un articolo di chimica applicata alla geopolitica, uscito sul corrierone a firma di Federico Fubini; l’articolo in effetti si trovava in forma analoga su Linkiesta, (senza firma) e anche su altri media. E discendono tutti da un articolo seminale pubblicato oltre un anno fa su Financial Times. Molti altri articoli sul medesimo tema, la difficoltà dei paesi europei ed americani nel fornire un sufficiente numero di pezzi di artiglieria da 155mm all’Ucraina sono stati pubblicati negli ultimi due anni, praticamente fin dal primo momento della guerra.
Vi mostro un assaggio dell’articolo in figura.
Fin dalla prima riga questo testo è un buon esempio di come travisare le notizie e far capire male le cose al grande pubblico.
Cominciamo dal principio; il tritolo o TNT è un composto del toluene, molecola derivata dal benzene, ottenuto per nitrazione ripetuta della molecola, è un solido cristallino giallastro, usato per trent’anni come colorante prima di scoprirne le proprietà come esplosivo:
Nulla a che vedere con la nitrocellulosa, che si ottiene anche essa per nitrazione, ma a partire da un polimero naturale, la cellulosa, di solito sotto forma di fibre e prende anche il nome di fulmicotone:
qui la nitrazione può avere un ruolo più o meno marcato, ma si tratta comunque di nitrare un polimero non una molecola isolata. Il risultato è una fibra come quella di partenza ma che ha assorbito la funzione nitrica su alcuni degli anelli del glucosio componente.
Le procedure di produzione sono un po’ diverse, in quanto mentre nel primo caso si nitra per stadi con una miscela di acido nitrico e acido solforico, ed occorre liberarsi dei prodotti incompleti che peraltro han colori diversi (la cosiddetta redwater), nel secondo caso il prodotto viene risciacquato con acqua fredda e calda per stabilizzare il prodotto e allontanare i residui dei due acidi; questo rende effettivamente il primo processo un po’ più complesso da gestire del secondo ma nulla di particolarmente difficile.
La nitrocellulosa se supera una percentuale di azoto di circa il 12% prende il nome di trinitrocellulosa e può essere usata come esplosivo, mentre con percentuali inferiori ha molte altre applicazioni industriali, perfino nell’industria cosmetica, dove prende il nome di collodio. La sua produzione non risulta essere particolarmente inquinante; per esempio si veda qui.
Il TNT è solo un esplosivo, maneggevole e potente, ma anch’esso non ha solo applicazioni belliche, basti pensare alle spettacolari esplosioni per distruggere grandi edifici dismessi, come abbiamo visto tutti col ponte di Genova o nelle cave e nelle miniere o negli scavi di gallerie. Dunque difficile pensare ad una produzione limitata “ai paesi autoritari”. Ha problemi di inquinamento ma ne parleremo dopo.
Tenete presente che per usare i famosi proiettili da 155mm che sono tipici dei cannoni Nato (quelli russi sono da 152mm invece) occorrono sia il TNT che la nitrocellulosa; il proiettile è fatto di tre parti: un contenitore di acciaio (o di altro metallo), un carico di esplosivo (potrebbe essere TNT o altro ) ed una cartuccia di propellente (potrebbe essere fulmicotone o altro) anch’esso “esplosivo” che serve a farlo partire ed arrivare prima possibile ad alta velocità sul bersaglio dove il primo esplosivo farà il suo sporco lavoro; in alcuni casi questo propellente, che non deve danneggiare o lasciare residui nel cannone, diventa un vero e proprio motore a razzo. Dunque si, i due esplosivi sono intrecciati ma non nella produzione (come sostiene Fubini) ma proprio dentro il proiettile.
Come è fatto un proiettile standard da 155? Qui lo spiega.
L’M795 è un proiettile con corpo in acciaio ad alta frammentazione (HF1) da 103 libbre e 155 mm riempito con 23,8 libbre di TNT o IMX-101, con una fascia rotante in metallo dorato compatibile con tutti gli obici/cannoni da 155 mm trainati e semoventi, attuali e futuri.
L’immagine rende chiara la sofisticazione e complessità del proiettile. È tratta da una pagina che fa il confronto fra i due tipi di proiettili usati da Nato e Russi, e che sono molto simili.
http://characterisationexplosiveweapons.org/studies/annex-b-152-155-artillery-version/
A questo punto diventa chiaro che l’articolo di Fubini è una specie di brutta copia di quelli molto più dettagliati e precisi degli altri giornali, i cui link trovate in fondo al post. Il più completo, oltre quello di FT, è quello di Reuters (riassunto da DeccanHerald) che racconta una storia molto più precisa e complessa.
La fine della Guerra Fredda portò a un forte calo della domanda di armi e costrinse molti produttori europei di esplosivi a cessare le proprie attività, a fondersi o semplicemente a chiudere le proprie strutture. Il Regno Unito, ad esempio, ha chiuso il suo ultimo impianto di esplosivi nel 2008. L’ultimo grande produttore di TNT in Europa si trova nel nord della Polonia. In altri paesi, molte strutture statali sono state privatizzate o messe fuori servizio. Per decenni, la loro produzione si è concentrata sull’efficienza in tempo di pace piuttosto che su scala industriale, afferma Johann Heherl, professore all’Università della Bundeswehr di Monaco. Di conseguenza, la catena di approvvigionamento ha pochissima capacità di soddisfare la crescente domanda.
Solo poche aziende producono ancora materiali ad alto contenuto energetico che soddisfano gli standard NATO. Uno di questi è Chemring Nobel, che ha un grande stabilimento a Setra, in Norvegia. L’altra è la francese Eurenco, che gestisce una struttura altrettanto grande a Karlskog, in Svezia. Il portafoglio ordini di entrambe le aziende è aumentato dopo l’invasione russa dell’Ucraina. L’impianto Eurenco sarà sovraccarico entro il 2030, mentre l’impianto Chemring di Saetra funzionerà a pieno regime.
https://newsukraine.rbc.ua/news/eu-faces-challenges-in-increasing-ammunition-1716805126.html
Un altro episodio poco conosciuto è stato questo: Nel 2021, gli Stati Uniti hanno iniziato a importare TNT da quell’impianto, a Rubizhne, nella provincia di Luhansk, come parte di un accordo a lungo termine da 188 milioni di dollari. Una persona che ha familiarità con la questione ha detto che gli Stati Uniti hanno importato circa 500 tonnellate di TNT prima dell’inizio della guerra. Nel 2022, tuttavia, la struttura è stata rapidamente catturata dai russi. Le forze ucraine lo hanno distrutto prima di ritirarsi.
https://www.deccanherald.com/world/years-of-miscalculations-by-us-nato-led-to-dire-shell-shortage-in-ukraine-3112249
Fubini riassume la complessità della situazione dicendo che sono i regimi autoritari che producono più TNT.
Se uno cerca solo un po’ su internet ricava subito i nomi dei principali produttori di TNT nel mondo:
· Orica Limited
· MAXAMCORP HOLDING, S.L
· NITRO-CHEM S.A.
· Enaex
· Dyno Nobel
Source: https://www.mordorintelligence.com/industry-reports/trinitrotoluene-market
Questi produttori sono situati in Polonia, in Cile, in Australia; a me non risulta che siano paesi autoritari almeno al momento; si scopre poi che impianti sono in costruzione in paesi liberissimi come la Finlandia, recente acquisto NATO; a voi riflettere su quali interessi muovano queste scelte.
Ovviamente ci sono altri produttori nel mondo e ce ne sono in Cina, India e Russia, ma un articolo come quello di Fubini oltre che divulgare fake news chimiche tende a presentare la Chimica come quella cosa sporca che si può fare solo nei paesi autoritari.
Ora queste scelte di spostare la grande produzione chimica in paesi come la Cina poniamo, che oggi è il principale produttore di chimica di base, nascono essenzialmente da interessi economici; lì i costi della manodopera sono più bassi e probabilmente lo sono anche le resistenze istituzionali all’inquinamento ambientale; o almeno finora, sono state minori (ma chi non ricorda quanto tempo ci abbiamo messo noi a comprendere il rischio dei grandi impianti); ne abbiamo parlato in occasione del grande incidente di Tianjin e di altri grandi incidenti.
Ma da qui a fondere autoritarismo e produzione di TNT ne corre parecchio. E poi chi ha “esternalizzato” le procedure? Invece di prevenire con scelte produttive intelligenti? E questo vale non solo nella produzione di esplosivi, ma in tutta la produzione industriale chimica e non chimica.
In realtà la sete di profitti fa a cazzotti con una produzione razionale, anche nel caso delle bombe!
Interessante a questo riguardo quanto dice sempre il solito articolo (vedi nota)[i]; il problema sembra essere la sicurezza dei profitti, basato su una richiesta ampia e costante di prodotti., L’assicurazione insomma che per garantire i profitti a queste aziende che “si sacrificano” a produrre il TNT gli si assicuri dei consumi bellici all’altezza! E che diamine!
Sulla questione dell’inquinamento da TNT aggiungerei qualche notizia più precisa; anzitutto ripetiamo che la nitrocellulosa non c’entra una cippa-lippa nonostante Fubini lo ripeta più volte.
L’inquinamento da TNT esiste certamente; come si diceva in apertura dipende dalla produzione di nitrazioni incomplete o asimmetriche, le quali mostrano anche un diverso colore del prodotto; e occorre purificare tali residui per motivi di efficacia ma anche di sicurezza di chi usa il TNT. In realtà si è tentato di sostituire il TNT con altre sostanze; per esempio la miscela esplosìva IMX-101 riduce la vulnerabilità da detonazioni non pianificate delle munizioni, fornendo una maggiore sicurezza durante la manipolazione da parte degli artiglieri. Ma si è poi scoperto che anche IMX ha suoi problemini ambientali.
Il problema del TNT è ben conosciuto:
Il 2,4,6-trinitrotoluene (TNT), un importante esplosivo militare, viene prodotto commercialmente dalla nitrazione del toluene, inizialmente utilizzando miscele di acidi nitrico e solforico concentrati per dare una miscela isomerica di dinitrotolueni e infine con miscele di acido nitrico e oleum (acido solforico contenente fino al 44% di triossido di zolfo libero) per convertire la miscela di dinitrotoluene in TNT. Una delle principali carenze del processo complessivo è la produzione di isomeri TNT asimmetrici, che vengono generati attraverso la nitrazione nella posizione 3 o meta dell’anello toluenico. La presenza di questi composti nel prodotto finale fa sì che il TNT abbia un punto di fusione troppo basso per uso militare, quindi gli isomeri asimmetrici devono essere rimossi mediante trattamento con bisolfito. Questo trattamento con bisolfito genera un flusso di rifiuti sottoprodotto noto come “acqua rossa”, che è difficile e costoso da trattare. Un ulteriore problema con gli attuali processi di produzione del TNT è la generazione di un sottoprodotto indesiderato, il tetranitrometano, e i gas di scarico dell’ossido di azoto, che richiedono soluzioni correttive. Il trattamento ha un costo aggiuntivo.
https://serdp-estcp.mil/projects/details/453fe6a6-19f6-4792-9da3-8c01dc868f15
Dunque un problema di costi aggiuntivi!
In sostanza non sarebbe un problema produrre del buon TNT, puro ed efficiente e ambientalmente pulito, ma a patto che lo Stato assicurasse un consumo costante ed un prezzo congruo per tenere dietro ai problemi di inquinamento! Anche i produttori di bombe hanno un’etica!
Assicurateci un consumo costante, una bella guerra che duri tanto da ammortizzare gli investimenti, chessò ventennale o trentennale e il problema è risolto!
Si scopre anche che il problema dell’inquinamento da TNT e derivati dipende non solo dalla produzione ma anche dall’USO del prodotto; un articolo che approfondisce la questione è stato pubblicato qui. Ne riporto una immagine esplicativa.
I residui incompleti del TNT sono tossici anche per l’ambiente oltre che per le persone e non solo in fase di produzione ma anche per chi manipola i proiettili o dopo il loro uso.
Consiglierei dunque al Corriere e all’autore dell’articolo di battersi per la pace, visto che l’uso del TNT è così pregno di pericoli da inquinamento (oltre a quelli da esplosione diretta) invece di accusare la Chimica per colpe non commesse.
Ed anche di sottoporre a qualche chimico, più informato di Fubini i testi pubblicati (anche se per il passato queste medesime richieste sono cadute nel vuoto). I grandi giornali dovrebbero essere obbligati ad avere una verifica interna di quello che pubblicano; nel caso in questione un esperto scientifico in grado di verificare la validità di ciò che si scrive. Più attenzione meno fake news.
Se il TNT è aumentato di prezzo invece di costruire altre fabbriche del medesimo in paesi NON-autoritari, come si sta facendo oggi in Finlandia e in Spagna (e anche in USA) assicurandone la costanza produttiva (ossia una bella guerrona di durata ragionevolmente lunga) sarebbe il caso semplicemente di smettere di usarlo.
Più diplomazia, meno TNT.
Consultati
Fai clic per accedere a ffrrofactsheet_contaminant_tnt_january2014_final.pdf
https://www.nature.com/articles/s41557-023-01337-4
Why the EU Fails to Deliver on Arms Pledges to Ukrainehttps://www.ft.com/content/aee0e1a1-c464-4af9-a1c8-73fcbc46ed17
https://www.japantimes.co.jp/news/2024/03/02/world/politics/europe-ukraine-gunpowder-shortage/
Includono aziende come Eurenco, con attività in Francia, Belgio e Svezia, e Nitrochemie, di proprietà maggioritaria di Rheinmetall, con siti in Germania e Svizzera.
https://serdp-estcp.mil/projects/details/453fe6a6-19f6-4792-9da3-8c01dc868f15
[i] A marzo, la Commissione europea ha affermato che grazie alle sue misure, la capacità di produzione annua europea di proiettili da 155 mm aveva raggiunto 1 milione un mese prima.
Tre mesi dopo, a giugno, Thierry Breton, il commissario europeo per il mercato interno, ha affermato che i produttori dell’UE avrebbero raggiunto una capacità annua di 1,7 milioni di proiettili da 155 mm entro la fine di quest’anno e che tale capacità avrebbe continuato a crescere. Tuttavia, secondo una fonte di alto livello dell’industria europea degli armamenti, la capacità attuale è circa un terzo di questa.
Molteplici fonti dell’industria europea degli armamenti affermano che faticano a investire grandi quantità quando i governi non finanziano o rimborsano l’ulteriore sviluppo di capacità: hanno bisogno di contratti a lungo termine. “È una sfida perché stiamo investendo miliardi o centinaia di milioni in macchinari e assumendo più persone. Abbiamo bisogno di un orizzonte più lungo”, ha detto a The Investigative Desk una fonte del settore.
Byelyeskov ritiene che i timori del settore siano giustificati.
“I contratti principali vengono stipulati a livello governativo e, se non ce ne sono, il produttore non investirà in capacità produttiva aggiuntiva né assumerà personale”, ha detto Byelyeskov a Schemes. “In Europa è una partita interessante”, ha detto. “I produttori privati dicono: ‘Mostrateci i soldi’… E i governi dicono: ‘Mostrateci la capacità di produrre’, ed è un circolo vizioso: chi sarà il primo a dimostrarlo?”
Nel mese di giugno la Rheinmetall ha ottenuto ciò che cercava.
Il governo tedesco ha notevolmente ampliato l’accordo quadro esistente, firmandone uno nuovo, il più grande nella storia dell’azienda, del valore di 8,5 miliardi di euro. Secondo un documento del governo tedesco che dettaglia l’accordo, ottenuto dal consorzio giornalistico, l’azienda fornirà oltre 2 milioni di proiettili da 155 mm a diversi paesi europei entro il 2030.
Che significa oro riciclato?
Claudio Della Volpe
Abbiamo parlato tanto qui e si parla tanto in generale di riciclo, che ci si può dimenticare del suo esatto significato.
Materiale riciclato vuol dire, materiale ripreso alla fine del suo ciclo di vita e rimesso in uso. Più precisamente si tratta di tutti i rifiuti che possono venire riutilizzati per produrre nuovi oggetti uguali allo scarto oppure utilizzati per produrre nuovi materiali. Ora quale è il fine ciclo vita di un materiale prezioso, come poniamo l’oro? Supponiamo per esempio di avere un vecchio gioiello e di rifonderlo l’ho riciclato? O no?
Sembra una questione di lana caprina, ma in realtà è una questione importante e che tiene banco nel commercio dell’oro e nel settore della gioielleria. In questi settori l’immagine del produttore/venditore è importante e allora passare per chi si impegna ad usare solo oro riciclato diventa un punto cruciale.
A patto di avere chiarezza su cosa è l’oro riciclato. L’oro vecchio di un gioiello antico ma non più usato, casomai non più di moda, oppure l’oro casomai di non chiara origine, rubato e rifuso è riciclato? Le vecchie monete senza un valore specifico sul mercato numismatico e rifuse sono oro riciclato?
Pandora, il più grande acquirente di gioielli al mondo, e Prada, che ha fatto il suo ingresso nel settore solo qualche anno fa hanno dichiarato che useranno solo oro riciclato. Esistono anche industrie di oro riciclato come questa. Questo fa capire subito l’importanza di una definizione chiara del termine: si tratta di un mercato di miliardi di dollari.
Il dibattito sull’oro riciclato è esploso pubblicamente quando Precious Metals Impact Forum (PMIF), un’iniziativa multi-stakeholder che sta facendo pressione per rendere le classificazioni dell’oro riciclato più rigide, ha pubblicato una lettera aperta criticando le difficoltà e le opposizioni dell’industria contro una ridefinizione del materiale.
Insomma qui abbiamo una situazione in cui una esatta definizione di cosa sia il riciclo vale denaro contante.
Già lo scorso aprile, l’Alleanza per L’Estrazione Responsabile aveva pubblicato una prima lettera intitolata “Old jewellery is not waste!” in cui si invitava a sostituire il termine «riciclato» con «riprocessato». Nella lettera si faceva ricorso alla definizione standard e ufficiale di “riciclaggio,” ovvero il riprocessamento di materiali di scarto, dove lo scarto è inteso come rifiuto. Secondo i critici, questa è una delle prime contraddizioni, poiché l’oro – a causa del suo alto valore e della crescente domanda – non è quasi mai un materiale di scarto.
C’è però una importante eccezione ed è l’oro usato nell’industria elettronica dove i contatti dei computers, dei cellulari e di molti altri apparecchi sono ricoperti di un film d’oro per motivi tecnici; in quel caso il fine vita dell’oro è quando il dispositivo, che non è un gioiello, va in discarica. Ma quanto di quell’oro viene riciclato? Solo il 20% a causa dell’elevato costo di questa operazione di recupero. Dunque mentre questo è effettivamente riciclo il resto sarebbe da chiamare riprocessamento e non dovrebbe incontrare come tale il favore del pubblico o rappresentare un vantaggio ecologico.
Come andrà a finire questa polemica? E quanti altri casi di finto riciclo incontreremo in futuro?
Voi cosa ne pensate?
https://www.nssmag.com/it/fashion/37592/oro-riciclato-gioielleria-vantaggi-critiche-sostenibilita
https://www.businessoffashion.com/articles/sustainability/recycled-gold-greenwashing-jewellery/
https://ethicalmetalsmiths.org/blog/what-constitutes-recycled-gold
https://valleyrosestudio.com/blogs/journal/why-recycled-gold-is-problematic
Recensione: La natura lo fa meglio (e prima),
Claudio Della Volpe
Giorgio Volpi* La natura lo fa meglio (e prima), Aboca 2024, p.309 €22
La natura lo fa meglio (e prima), Giorgio VolpiUn libro bello da leggere ma soprattutto ricco di quel senso del meraviglioso che alcuni sperimentano solo da bambini, ma ad altri rimane nel cuore e diventa anche impegno professionale e divulgativo. Questa è l’impressione che ho ricevuto leggendo l’opera di Giorgio Volpi.
Oltre 300 pagine in 11 capitoli dedicate ad un argomento molto originale: come la Natura abbia di fatto anticipato moltissime invenzioni umane con modalità e specifiche che spesso l’uomo non riesce non solo ad eguagliare, ma nemmeno ad avvicinare. Ogni capitolo affronta un tema generale inserendo storie poco conosciute di fenomeni naturali riscoperti ed imitati dall’uomo: dagli occhiali delle trilobiti del Paleozoico alle fragranze naturali più o meno famose, dal vetro dell’ortica alla catalisi ed agli ioni che l’hanno resa possibile in passato o la aiutano nel presente (qua c’è un interessante richiamo alla storia dell’ecologia terrestre), dall’universo del futuro fatto integralmente di ferro alla fotosintesi “condivisa”, dalla bussola batterica alle macchine tagliameduse usate in un famoso, ma poco noto nei dettagli, esperimento da Nobel.
Una serie veramente notevole di casi di fenomeni poco conosciuti che correlano con invenzioni a volte diventate comuni, ma di cui anche lo specialista non ha poi una conoscenza approfondita.
Nel raccontarci con garbo le sue storie e rappresentarci i vari casi l’Autore ha modo di raccontare le proprie esperienze, spesso curiose; lo stile è scorrevole e mai noioso; ogni capitolo è dotato di una serie di citazioni di letteratura scientifica che approfondiscono il tema; un glossario aiuta il non-chimico, ma anche il non-naturalista ad interpretare correttamente i termini.
C’è anche un set di illustrazioni ciascuna all’inizio di ciascun capitolo; questa è l’unica nota che faccio; lo stesso numero di illustrazioni (peraltro quelle scelte sono molto belle) avrebbero potuto aiutare la comprensione in punti più complessi del testo; che rimane comunque fluido e gradevole, né eccede mai in tecnicismi.
Si sente sempre, in ogni pagina, uno stupore, una convinta ammirazione, un senso di meraviglia che si rinnova ad ogni argomento, e che può aiutare l’adulto ma anche il giovane e meno giovane studente ad apprezzare i meccanismi naturali e come si rivelino sempre nettamente superiori a quelli sia pur immaginifici dei nostri scienziati e tecnologi.
Non conoscevo che una parte delle rivelazioni che l’Autore fa nel testo; ma anche quelle le ho rilette con piacere non solo per la chiarezza espositiva, ma anche per l‘approccio semplice e diretto ai vari temi trattati. Insomma un testo che personalmente consiglio di leggere e perfino di consultare, perché certi argomenti non sono comuni da trovare in ambito divulgativo. La bioluminescenza o il cambio di ruolo degli ioni metallici nel passare dall’epoca anossica a quella ossigenata per esempio sono argomenti “tosti” ma estremamente interessanti e non comuni nella divulgazione naturalistica.
Volpi conferma una cosa che come redattori e lettori di questo blog abbiamo sempre sostenuto: in molti chimici, combinatori di atomi e molecole può nascondersi un combinatore di parole e di frasi, uno scrittore, insomma e anche alquanto bravo.
*Giorgio Volpi (Cuneo, 1983) laureato in Chimica presso UniTo, ha un dottorato in Scienza e Alta Tecnologia con una tesi sulla preparazione di nuovi complessi luminescenti ed una seconda laurea in Scienze Naturali. Da tecnico presso il Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino svolge ricerche nell’ambito della luminescenza e dei complessi organo-metallici ed è autore di oltre 40 articoli su riviste internazionali
Vestiti intelligenti.
Luigi Campanella, già Presidente SCI
I sensori indossabili sono uno dei traguardi della medicina personalizzata a cui però il contributo principale proviene dalla chimica. Sostanzialmente il controllo dello stato di salute 24 h su 24 è affidato a sensori indossati dal paziente al pari di un indumento o di un orologio o di un paio di occhiali comunque durante tutto il tempo. Ciò consente di monitorare la dinamica di alcuni indici igienico sanitari, di rilevare momenti di allarme, come capita in occasione di alcune patologie respiratorie e cardiovascolari, di intervenire in tempo reale in caso di necessità ed urgenza.
Oggi l’alleanza della chimica con la medicina gode di un altro successo. Prima sensori indossati come vestiti oggi vestiti che fungono da sensori, i dispositivi indossabili così come li conosciamo oggi sono destinati a scomparire per essere assorbiti dagli abiti. Arriva l’era degli smart clothes, dei vestiti intelligenti. Gli abiti intelligenti, o vestiti intelligenti, sono degli indumenti a cui vengono applicate le migliori tecnologie allo scopo di migliorare la comodità e il benessere di chi li indossa. il futuro parla già di vestiti che si integrano perfettamente al nostro stile di vita con l’obiettivo di migliorarlo attraverso sensori di vario tipo che guidano e monitorano i cambiamenti fisiologici durante lo sforzo e il semplice movimento. Restando in un contesto più realistico e attuale, la tecnologia già ci permette di vestire indumenti capaci di controllare la temperatura, gli odori e la traspirazione, così come proteggerci dai raggi solari e dalla crescita di funghi e altri microrganismi (antimicrobici). Questi sono già vestiti intelligenti.
I tessuti sintetici, tutt’ora in voga, saranno sostituiti da altri più naturali e quindi più sostenibili e biodegradabili. Il cotone è la fibra regina e permetterà di testare al meglio anche quelle futuristiche idee di cui abbiamo accennato poco sopra. Sul tema affascinante ed innovativo è attivo il progetto SENSE RISC, promosso e finanziato da INAIL, che concorre al raggiungimento degli obiettivi dell’ambito core della Mission Istituzionale dell’INAIL, e specificatamente alla tematica programmatica ID10 «Abiti Intelligenti per Lavoratori».
L’obiettivo è lo sviluppo di abiti sensorizzati intelligenti per il monitoraggio e la prevenzione della salute e sicurezza sul lavoro. Si tratta di abiti realizzati con tessuti ingegnerizzati per monitorare sia i fattori ambientali di un contesto lavorativo (fisici, chimici, biologici), sia i parametri fisiologici del singolo lavoratore (frequenza cardiaca e respiratoria, temperatura corporea, sudorazione).I sensori proposti, ed integrati nei tessuti, sono basati su nanotecnologie e nanomateriali (Grafene, Nanostrutture di ossido di zinco, ZnO, nanoparticelle e polimeri ad elevata biocompatibilità, Fiber Bragg Grating –FBG-funzionalizzati) per le rilevazioni di parametri fisici, ambientali, agenti chimici e biologici, durante l’attività lavorativa.
La tossicità dei tessuti con sensori a base grafene è stata valutata in vitro, tramite test di vitalità cellulare e microscopia elettronica a scansione a emissione di campo (FESEM), e in vivo nel nematode C. elegans (Caenorhabditis elegans).
Inoltre, è stato realizzato ed integrato nella maglietta il sensore del sudore, rimovibile durante la fase di lavaggio, riutilizzabile e che consente la misurazione della sudorazione sulla base della rilevazione del gradiente di umidità sulla pelle del lavoratore. Questi sistemi sono connessi tra loro attraverso una piattaforma modulare indossabile che comunica via wireless con dispositivi mobili (smartphone) e, attraverso algoritmi biocooperativi innovativi, consente di segnalare in tempo reale potenziali rischi di infortunio del singolo lavoratore.
L’algoritmo di intelligenza artificiale, sviluppato all’interno del progetto, è in grado di utilizzare i dati proveniente dai vari sistemi presenti sull’abito intelligente, estrarne informazioni utili al fine del monitoraggio dell’ambiente e del lavoratore; inoltre grazie alla mole di dati, strutturati e non, provenienti dai diversi lavoratori il sistema riesce ad essere sempre più robusto in termini di affidabilità e quindi prevenzione dei livelli di rischio.
Lo scale-up progettuale ha portato ad un’innovazione sulla sensoristica stampata su tessuto; attraverso l’utilizzo di tecniche di transfert printing si è potuto migliorare il grado di
integrazione tra sensori su tessuto e contatti elettrici, necessari per le interconnessioni con l’elettronica.
Il prototipo di “abito intelligente” (la maglietta) è stato progettato per essere lavabile, con caratteristiche di elevata vestibilità, costo e funzionalità adatte all’uso come dispositivo individuale di protezione e mitigazione del rischio negli ambienti di lavoro tipici dei settori di processo e di produzione. Il sistema è semplice da utilizzare senza necessità di una formazione specifica da parte dell’utilizzatore finale, così da essere versatile e di ampio utilizzo.
La platea dei lavoratori verso i quali è diretto questo progetto è molto estesa, infatti comprende i settori dell’agricoltura, della zootecnia, delle costruzioni, della cantieristica (es. navale) e dell’industria di processo (chimica e petrol-chimica) dove sono presenti rischi dovuti alla movimentazione manuale dei carichi, esposizione ad eccessivi livelli di sostanze chimiche e stress fisico di carattere ambientale.
I partner del progetto sono Università ed Istituti Italiani altamente qualificati: Dipartimento di Ingegneria Astronautica, Elettrica, Energetica, SAPIENZA Università di Roma (UR-DIAEE), Roma; Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici, (INAIL) Roma; Dipartimento Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” SAPIENZA Università di Roma (UR- DBBCD), Roma; Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa (UP-DCCI), Pisa; Istituto di Bio-Robotica della Scuola Superiore Sant’Anna (SSSA), Pontedera; Facoltà di Ingegneria dell’ Università Campus Bio-Medico di Roma, (UCBM), Roma; Polo Tecnologico della Fondazione Don Gnocchi “IRCCS” (FDG), Milano
L’attualità del tema è confermata dal fatto che il progetto INAIL non è il solo attivo in materia. Infatti il Consorzio Eteria ha prodotto la camicetta smart finalizzata alla sicurezza dei lavoratori che vengono seguiti nell’arco di un turno di lavoro monitorando in continuo gli indici di benessere e di buona salute. I dati rilevati vengono trasmessi ad una piattaforma tecnologica ed allo smartphone dell’utente.
Periodicamente sono prodotti dei report, l’insieme dei quali rappresenta la storia igienico sanitaria del lavoratore
Complessivamente possiamo da chimici rilevare con orgoglio quanto piacere dia vedere che contributi essenziali alla sicurezza dei lavoratori vengano dalla nostra disciplina.
I famosi 2 volti della chimica segnano ancora un punto a favore del volto buono.
Piccola cronaca estiva.
Mauro Icardi
L’estate è una stagione che personalmente ho amato molto da giovane. Ma in modo diverso da come la si vive oggi. Oggi questa stagione sembra voler rappresentare il diritto all’eccesso, al divertimento forzato. Io ho vissuto estati più tranquille, fatte di escursioni, di esplorazione delle valli alpine piemontesi. A piedi e con l’amata bicicletta. Questo ha fatto sì che anche oggi prediliga mete più vicine, che cerchi di evitare le località turistiche più affollate e ormai stravolte sia dal punto di vista urbanistico, e che non conservano quasi nulla del loro passato.
L’estate 2024 mi colpisce per due ragioni, entrambe legate al mio essere un tecnico del ciclo idrico, come mi piace definirmi.
La prima riguarda le olimpiadi di Parigi. In particolare la decisione, a mio parere surreale e azzardata, di far disputare la frazione della gara di nuoto del triathlon olimpico nella Senna.
La città conta più di due milioni di abitanti, è storicamente dotata di un sistema fognario e di depurazione delle acque di risulta. Ma è logico e razionale pensare che questo stesso sistema possa andare in sofferenza quando il numero di persone aumenta in ragione del numero di turisti e atleti che soggiornano nella città durante lo svolgimento dei giochi. Problema non nuovo che riguarda ogni tipo di località turistica. Con una prima e fondamentale differenza. Di norma le località balneari hanno risolto già da tempo, oppure stanno risolvendo il problema delle variazioni di carico, sia idraulico che organico che affluisce agli impianti, e che varia notevolmente tra la stagione estiva e quella invernale. Le grandi città sono invece sistemi più complessi anche da questo punto di vista. Mia moglie al ritorno serale dal lavoro mi informava di alcune cose. In particolare dello spostamento delle date per disputare la gara, legate alla situazione di contaminazione microbiologica della Senna. In qualche caso peggiorata dopo le piogge. Non conosco esattamente la situazione del numero e della tipologia degli impianti di depurazione parigini, ma dato che ancora oggi, per ragioni principalmente dovute ai costi e alla conservazione delle strutture si progettano gli sfioratori di troppo pieno, non era difficile immaginare che si sarebbero potute verificare queste criticità. Alla prima precipitazione i by pass fanno quello per cui sono stati progettati, sversano il surplus di progetto di acqua di fogna nel fiume. Ho letto anche che è stata costruita una notevole vasca di raccolta liquami per evitare lo sversamento diretto. In sostanza un’affannosa corsa, probabilmente gestita in maniera affrettata e confusa, per mostrare al mondo che la Senna è tornata balneabile. Non è cosi che si dovrebbe gestire il risanamento ambientale. L’intera operazione è stata contestata dai cittadini di Parigi. Alcuni atleti hanno contratto infezioni da E.Coli. Il risultato di tutta questa operazione è riassunto in questo meme.
Esisteva una soluzione alternativa, ovvero far disputare la gara di triathlon in acque costiere. La Francia dispone di una buona rete ferroviaria. Credo che le sue coste siano balneabili. Invece di imporre la balneazione nella Senna bastava disputare la gara a Cannes per esempio. Questa scelta ha (passatemi il termine) probabilmente sputtanato la depurazione agli occhi dei non addetti. Conosco la fatica che si fa a spiegare la storia, le tecniche di depurazione. A far capire l’importanza del trattamento delle acque, i suoi principi fondamentali, le necessità che si modifichino in funzione dei nuovi inquinanti che immettiamo nell’ambiente. Oltre a tutto questo mi domando, ma queste grandi manifestazioni hanno ancora un senso? Il ritorno economico è quasi sempre negativo, quello ambientale addirittura tragico. Per altro ricordo i timori dei colleghi di Torino prima delle olimpiadi del 2006 proprio per le problematiche gestionali da affrontare nel settore depurazione, e quelle dei colleghi di Milano alle prese con le nuove fontanelle di acqua potabile installate per l’expo. Mi sembra doveroso ricordare i loro sforzi e il loro impegno per la riuscita di tali eventi.
Altra notizia di questa estate che mi ha colpito, è il ripetersi di fenomeni di cui ci eravamo dimenticati. Ovvero la presenza di mucillaggini in Adriatico, morie di pesci nella laguna di Orbetello e sul litorale romano.
Un’estate particolarmente piovosa ha aumentato il dilavamento dei nutrienti provenienti dagli allevamenti. E’ patrimonio comune l’idea che tutti i fiumi finiscono in mare, e con loro tutto quello che viene dilavato dai terreni. Un articolo uscito sul quotidiano “La Nazione” relativo alla moria di pesci ad Orbetello significativamente titola cosi: “Non abbiamo imparato proprio nulla”. Alla buonora, finalmente anche la stampa generalista si rende conto che affrontiamo quelle che ci ostiniamo a chiamare criticità, quando ormai la situazione ci sta praticamente sfuggendo di mano?
L’articolo dà conto delle conosciute criticità, critica il sistema fognario più che quello depurativo, dimenticandosi di dire che (dati ISTAT) il 96,3% dei comuni italiani è servito da un sistema di trattamento delle acque, grazie a 18042 impianti di depurazione dislocati sul territorio nazionale. Conosco le criticità del servizio, ma conosco anche le ritrosie quando si parla di gestione tariffaria del ciclo idrico integrato. Ma questo porterebbe fuori tema, e oltretutto di queste cose ho scritto già molto su questo blog. Qui sta accadendo qualcosa di molto diverso. Le acque costiere sono più calde ma nella percezione comune “faceva così caldo anche negli anni 50”. Quando sento queste affermazioni vorrei rispondere come il professor Keating, magistralmente interpretato da Robin Williams nel film “L’attimo fuggente”, quando si riferiva alle idee di Jonathan Evans Pricher sulla comprensione della poesia. Ma questa volta mi trattengo dal farlo.
Caldo, eccesso di nutrienti, ed ecco che la moria diventa inevitabile. Non è una novità, non è affatto necessario far finta di essere stupefatti, preoccupati e magari indignati. L’effetto della temperatura sull’ossigeno disciolto è conosciuto dai tempi della legge di Henry. Le fioriture algali le abbiamo già viste e conosciute. Su ogni testo di chimica, di scienze naturali, di biologia, di ecologia questi effetti sono spiegati. Come sempre ci manca la volontà di agire, di capire. E di accettare di limitare il nostro saccheggio planetario, i nostri desideri futili, di evitare di usare l’abusato e consolatorio termine “sono tutte sciocchezze”. E anche in questo caso ho voluto usare un eufemismo.
La conclusione la traggo direttamente dall’editoriale de “La Nazione” del 7 agosto scorso a firma di Alessandro Antico:
“ Vi sono state ere in cui il clima è uscito dai canoni solitamente conosciuti: è tutto documentato. Ma non è il caso nostro, nel senso che non è il caso dell’oggi. Non lo è perché dei ghiacciai che si stanno sciogliendo lo andiamo scrivendo in tutto il mondo ormai da decenni. Non lo è perché le morìe di pesci nella laguna di Orbetello non sono un tormentone dell’estate del 2024, visto che già nel 2015 toccammo con mano il disastro. Però si continua a non fare abbastanza per inquinare meno, per rinunciare a un po’ dei nostri motori, per non far decollare le “energie alternative.“
Ho chiuso decine di articoli con esortazioni di questo tipo. Magari questa avrà più effetto. Me lo auguro di tutto cuore, perché la nostra immobilità, la nostra cecità planetaria di fronte a questi fenomeni non ha alcuna ragione di essere.
Dalla pietra di Bologna ai moderni display.
Claudio Della Volpe
In un precedente post abbiamo accennato alle proprietà ottiche del solfato di bario, un composto presente in natura come minerale, la barite in varie regioni italiane. Qui da me in Trentino ce n’è un’intera montagna visibile da Trento, (il Monte Calisio o Argentario, da cui si estraeva argento, galena di piombo e barite) dalla quale già i Romani estraevano l’argento e che conteneva i minerali d’argento in un contesto di bario e piombo; vicino Bologna la barite (o baritina) era presente invece in quantità in certe zone del circondario (l’attuale Monte Paderno, una collina nel sud della città dove si trova oggi un parco pubblico, indicato dal punto rosso, raggiungibile dalla vecchia porta di San Mamolo, partendo da via D’Azeglio).
Ne abbiamo parlato ricordandone la storia e ripubblicando un articolo del compianto Marco Taddia; in letteratura esistono parecchi articoli che parlano della pietra o fosforo di Bologna, scoperta da un calzolaio bolognese, Vincenzo Casciarolo, persona non istruita ma curiosa e fatta conoscere in tutta Europa da vari intellettuali bolognesi e di altri paesi.
La pietra di Bologna aveva un segreto che non fu subito manifesto; essa conteneva una piccola percentuale del tutto naturale di impurezze di rame che funzionavano da drogante e consentivano alla fosforescenza di manifestarsi potentemente; ed era inibita viceversa dal ferro (assente nei campioni bolognesi, una pura coincidenza!); dunque dato che il prodotto deve essere calcinato trasformandolo in solfuro la cosa non è ininfluente.
Riscaldando la pietra in un contenitore fatto con leghe di rame (ottone o bronzo) il risultante solfuro di bario era maggiormente soggetto al fenomeno; viceversa se si usava un contenitore di ferro, che inibisce il fenomeno; (il ferro in concentrazioni estremamente basse (dell’ordine dello 0.005%) “quencha” il materiale fosforescente, tanto da essere questo un metodo di rivelazione del ferro a concentrazioni di picogrammi/litro, probabilmente a causa del forte assorbimento UV del Fe+3, come anche della sua capacità di legarsi nel caso di fosforescenti organici). La tradizione inoltre mescolava il materiale con diverso materiale organico, ma bastava del carbone ed una combustione lenta, che producesse molto monossido di carbonio per avere l’effetto riducente necessario alla bisogna, insomma una vera ricetta, la cui ratio, il cui segreto fu compreso solo molto dopo.
Come il solfuro di zinco (usato più comunemente oggi) il solfuro di bario è un semiconduttore, cioè un materiale con una banda di valenza piena di elettroni e una banda di conduzione vuota.
È noto che il gap energetico tra le due bande è, nello ZnS puro, di circa 350 kJ/mol (corrispondenti a 3,6 eV) mentre è di 3.3eV nel solfuro di Bario. Dato l’ampio gap energetico, in condizioni di temperatura normale è presente solo una concentrazione molto piccola di portatori di carica. Il drogaggio con rame, argento o cerio o manganese a seconda del solfuro introduce livelli di energia elettronica intermedi all’interno della banda proibita. In questa situazione, l’illuminazione con luce UV o anche con luce ambiente eccita gli elettroni, portandoli dalla banda di valenza alla banda di conduzione. Il successivo meccanismo di ricombinazione elettrone-buco, attraverso i livelli energetici intermedi introdotti con il drogaggio, porta all’emissione di fosforescenza per tempi più o meno lunghi, ma comunque ben riscontrabili
Zinc Sulphide PhosphorescenceIl seguente grafico dà un’idea dell’effetto del dopante:
Grafico da Solid State Comm. 68, 9, 821-824 (1988)
Per esempio il campione S0 non contiene dopante mentre il campione SC15 contiene il 3.3% di rame e SC13 lo 0.6%.
Un caso fortunato la pietra di Bologna per vari motivi; la concentrazione delle impurezze di rame e di ferro era specifica dei campioni bolognesi, in particolare il rame non era né troppo né troppo poco in quanto anche l’eccesso di rame può quenchare il materiale e questo spiegherebbe anche i fallimenti su materiali una volta usati con successo; l’assenza di ferro non era tipica della barite, barite da altre fonti non mostrava questo comportamento speciale; il filone peraltro sembra si sia poi esaurito portando alla scomparsa della conoscenza di questo segreto chimico in città fino a tempi relativamente recenti, come racconta l’articolo di Principe sotto citato e giustificando anche la descrizione che dava Taddia nel suo pezzo.
Il materiale fosforescente più comune è in realtà il solfuro di zinco, comunemente usato in innumerevoli applicazioni legate sia all’illuminazione che ai display monocolori e all’elettronica; i display verdi dei primi computer erano tutti basati sull’uso del solfuro di zinco per esempio, come anche i comuni monitor degli oscilloscopi o dei radar (la cui scia è dovuta proprio alla durata della fosforescenza).
Anche nel caso dello zinco occorre un dopante, che può essere cerio o argento. Un elenco molto accurato delle applicazioni del solfuro di zinco e dei colori ottenibili è riportato alla voce https://en.wikipedia.org/wiki/Phosphor; notate che con il termine “fosforo” si esprime spesso genericamente un materiale fosforescente e non necessariamente l’elemento fosforo. Ultima nota importante, un materiale fluorescente o fosforescente è un materiale in cui la produzione di luce è stimolata da luce a lunghezza d’onda minore con una differenza solo nel tempo di stimolazione (più lenta la riemissione di luce di lunghezza d’onda maggiore nel caso dei materiali fosforescenti) ; nel caso dei display si sfrutta l’effetto non della luce ma del fascio di elettroni del monitor, il quale eccita gli elettroni di valenza in modo diretto, e il nome del processo dovrebbe essere più precisamente catodoluminescenza.
ZnS è un materiale con molte strutture possibili e mostra anche il fenomeno di elettroluminescenza, ossia emissione di luce dopo stimolazione con un campo elettrico; in genere i solfuri metallici puri o misti mostrano di divenire luminescenti in vario modo (ossia se stimolati in differenti modalità, per esempio attraverso un campo elettrico) per questo motivo continuano ad essere al centro dello sviluppo tecnologico nel settore dei display.
Riferimenti o testi consultati
Lawrence M. Principe Ambix, 2016, 1–27 Chymical Exotica in the Seventeenth Century, or, How to Make the Bologna Stone
https://www.chemistryworld.com/opinion/solving-the-riddle-of-the-glowing-stones/1017596.article
https://en.wikipedia.org/wiki/Phosphor
https://www.treccani.it/enciclopedia/luminescenza_(Enciclopedia-Italiana)/
https://www.spectroscopyonline.com/view/fluorescence-quenching-effects-of-fe3-ions-on-carbon-dots
Materials 2010, 3, 2834-2883; doi:10.3390/ma3042834