slideshow 0 slideshow 1 slideshow 2 slideshow 3 slideshow 4 slideshow 5 slideshow 6 slideshow 7 slideshow 8 slideshow 9 slideshow 10 slideshow 11

BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'

Condividi contenuti La Chimica e la Società
Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Aggiornato: 4 giorni 6 ore fa

Idrogeno verde ma anche blu-mare.

28 ottobre, 2024 - 20:30

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Fino a qualche anno fa, la produzione di idrogeno tramite elettrolisi si limitava all’uso di acqua dolce, poiché le tecnologie disponibili non erano adatte all’impiego di acqua marina a causa dei danni che il sale poteva causare agli impianti. Oggi, a seguito degli sforzi di ricerca condotti dall’Università di Stanford, si è compiuto un notevole passo avanti nell’utilizzo dell’acqua di mare per la produzione di idrogeno verde. Il team di ricercatori ha dimostrato la fattibilità di separare idrogeno e ossigeno dell’acqua salata della Baia di San Francisco mediante l’uso dell’elettricità, producendo un combustibile a idrogeno utilizzando elettrodi rivestiti da solfuro di nichel, una sostanza in grado di resistere all’azione corrosiva dell’acqua di mare.

Il discorso è forse ancor più generale. Le tecnologie di elettrolisi impiegate per la produzione di idrogeno verde che richiedevano l’impiego di acqua dolce, risorsa estremamente preziosa per il nostro pianeta, grazie agli sforzi di ricerca e alle recenti scoperte tecnologiche, possono impiegare invece  direttamente acqua marina (una delle risorse più abbondanti del nostro pianeta), utilizzando l’energia solare e eolica. Questo cambiamento non solo rappresenta un importante passo avanti verso la riduzione della dipendenza dalle risorse idriche dolci, ma promette anche sviluppi significativi per l’intero settore dell’energia rinnovabile, aprendo nuove prospettive per una produzione di idrogeno verde più accessibile e sostenibile su scala globale

Gli elettrolizzatori hanno due elettrodi rivestiti da un catalizzatore che fanno passare la corrente attraverso l’acqua. Una membrana separa l’idrogeno e l’ossigeno, mentre i gas fuoriescono dall’acqua su entrambi i lati. Ma le impurità nell’acqua di mare possono causare reazioni collaterali e corrosione. Nello specifico, i catalizzatori odierni convertono gli ioni cloruro nell’acqua di mare in cloro gassoso all’anodo. Il cloro è un gas estremamente reattivo e corrosivo e può degradare i catalizzatori e gli elettrodi, riducendo la durata del dispositivo. Anche altri ioni nell’acqua di mare, come magnesio e calcio, reagiscono con il catalizzatore e formano sottoprodotti che possono interferire. Inoltre, tutte queste reazioni collaterali riducono l’efficienza dell’elettrolizzatore.

Rimuovere i sali e le impurità dall’acqua di mare è un modo per aggirare il problema, ma la desalinizzazione e la purificazione richiedono molta energia e sono costose.

In passato, i ricercatori hanno anche provato a rivestire i catalizzatori per prevenire queste reazioni collaterali. Questo approccio ha avuto un modesto successo e non è molto pratico. Altri hanno realizzato piccoli dispositivi di elettrolisi a energia solare su scala di laboratorio privi di membrana, ma in genere necessitano di pompe.

Shao ed Heping Xie dell’Università di Shenzhen ed i loro colleghi hanno scelto di mantenere la membrana. Hanno riprogettato il sistema di elettrolisi in modo da tenere gli ioni e le impurità lontani dagli elettrodi così che non ci siano reazioni secondarie o corrosione. Nel loro dispositivo, due elettrodi, separati da un film sottile che tiene separati l’ossigeno e l’idrogeno, sono immersi in una soluzione elettrolitica concentrata di idrossido di potassio. Membrane porose separano l’elettrolita dall’acqua di mare su ciascun lato. La membrana tiene fuori l’acqua liquida ma lascia passare il vapore acqueo. Ora, quando l’elettricità passa attraverso gli elettrodi, l’acqua viene elettrolizzata e la concentrazione della soluzione aumenta ulteriormente, creando una differenza di pressione tra l’elettrolita e l’acqua di mare all’esterno delle membrane. Ciò fa evaporare spontaneamente l’acqua di mare e il vapore acqueo si diffonde attraverso le membrane nell’elettrolita, dove si trasforma nuovamente in acqua liquida, reintegrando l’acqua che era stata elettrolizzata in precedenza. Per mostrare la praticità del progetto, il team ha realizzato un dispositivo dimostrativo contenente 11 celle di elettrolisi. L’hanno testato usando vera acqua di mare della baia di Shenzhen. Il sistema ha funzionato senza problemi per più di 130 giorni, producendo 386 litri di idrogeno all’ora.

Nota del postmaster: per valutare l’efficienza del processo considerate che 1kg di idrogeno corrisponde a 33 kWh di energia mentre per produrre 1kg di idrogeno con questo metodo ne occorrono 56; dunque l’efficienza è dell’ordine di 33/56=59%

I ricercatori stanno ora cercando di migliorare l’efficienza del sistema. Riportano che potrebbero migliorare le prestazioni provando elettroliti diversi dall’idrossido di potassio e materiali diversi per gli elettrodi e i catalizzatori.

Shao afferma che il dispositivo potrebbe essere utilizzato per produrre idrogeno recuperando allo stesso tempo risorse utili come il litio dall’acqua. E potrebbe essere esteso ad applicazioni diverse dalla produzione di idrogeno, come la pulizia delle acque reflue industriali.

Anche se il lavoro citato è del 2022 recenti reviews lo considerano il metodo di gran lunga più promettente.

Fonte: https://www.nature.com/articles/s41586-022-05379-5

https://spectrum.ieee.org/electrolysis-of-seawater

Premio Nobel per la Chimica 2024

22 ottobre, 2024 - 12:35

Raffaele Ragone*

Il premio Nobel per la chimica 2024 è stato assegnato a David Baker, University of Washington, Seattle, WA, USA, per il “computational protein design”, e l’altra metà congiuntamente a Demis Hassabis, Google DeepMind, Londra, Regno Unito, e John M. Jumper, Google DeepMind, Londra, Regno Unito, per la “protein structure prediction”.

Il lavoro dei tre ricercatori ha risposto a una domanda di lunga data in biologia: possiamo prevedere come si ripiega una proteina dalla sua sequenza di amminoacidi? I loro metodi computazionali offrono modelli altamente accurati del ripiegamento proteico (https://www.chemistryviews.org/nobel-prize-in-chemistry-2024/; https://www.nobelprize.org/prizes/chemistry/2024/press-release/).

È un po’ che volevo scriverci qualche parola di commento, perché qualcuno ha detto che, trattandosi del mio campo di ricerca, il premio Nobel era un po’ anche mio. Questo va d’accordo con quanto qualcun altro, mio allievo e collaboratore in passato, ha affermato, dicendo che il Nobel della Chimica 2024 gli piace particolarmente perché è il suo campo di lavoro.

È inutile dire che, a mio avviso, le cose non stanno esattamente così, da un lato per non diminuire il merito dei ricercatori premiati, dall’altro per spendere qualche parola su che cosa significhi, per uno che ci ha lavorato su per quasi trent’anni, trovare la chiave del codice strutturale che la catena di amminoacidi costituenti una proteina contiene, fin dal momento della sua sintesi sul ribosoma. Certamente, la predizione dell’architettura tridimensionale delle proteine è sempre stata una sfida, ma ancor di più lo è stata, e lo è tuttora, la comprensione di come a questa architettura corrisponda una condizione di sostanziale stabilità dal punto di vista termodinamico. È questa che, alla fine, conta. La struttura tridimensionale di una proteina è il risultato di un equilibrio precario, in senso comune e in senso chimico, ed è la sua stabilità termodinamica a garantirne l’esistenza e, quindi, la forma necessaria per svolgere una funzione utile dal punto di vista biologico. Il vero problema è dunque questo, non la potenza immane degli strumenti di calcolo adoperati dai ricercatori premiati, che, banalizzando, essi hanno applicato alla gran mole di dati sperimentali e alle regole ‘empiriche’ da questi desunte.

Si racconta che uno dei massimi interpreti di questa visione, Charles Tanford (https://www.science.org/doi/10.1126/science.653353), abbia alla fine desistito dal dedicarsi al problema della struttura proteica per rivolgersi allo studio dei tensioattivi, che, pur essendo fondamentalmente regolati dal medesimo sistema di interazioni, sono molto meno complessi dal punto di vista strutturale, verosimilmente perché godono della libertà di essere fondati sulle interazioni tra singole unità strutturali, piuttosto che dover obbedire all’ulteriore vincolo, specifico di ogni sistema polimerico, di bilanciare forze e costrizioni strutturali. Anche Harold Helgeson, presso il cui laboratorio ebbi la fortuna di lavorare, dovette arrendersi all’impossibilità di dare un senso strutturale dettagliato al dato termodinamico, pur avendo elaborato un modello potente per calcolare le grandezze termodinamiche fondamentali. Io stesso, in fine di carriera, mi rivolsi allo studio delle cosiddette ‘proteine intrinsecamente disordinate’, avendo compreso che è di gran lunga più facile prevedere, sulla base della composizione di una catena di amminoacidi, a quali requisiti questa debba rispondere perché non dia luogo a una struttura organizzata da un punto di vista tridimensionale, così contravvenendo all’assioma che la struttura determini la funzione biologica (https://febs.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1742-4658.2007.06242.x). Per inciso, questo è uno dei punti che sfuggono, per definizione, ai modelli predittivi della struttura tridimensionale.

Così, il problema dell’organizzazione strutturale delle proteine partendo da principi primi, o da calcoli cosiddetti ‘ab initio’, per usare un gergo più consono ai chimici, rimane, a mio avviso, irrisolto, per la gioia dei chimici teorici e di tutti gli altri ricercatori impegnati in questo sforzo. Su questa strada, in verità, un Premio Nobel per la Chimica è stato non troppo in là negli anni assegnato a Karplus, Levitt e Warshel (https://www.nobelprize.org/prizes/chemistry/2013/press-release/). Anche qui, la potenza di calcolo necessaria è enorme, verosimilmente superiore a quella messa in campo da Baker, Hassabis e Jumper, ma potrebbe non servire a nulla se anche in campo teorico non verranno elaborate idee nuove da sviluppare. Nel frattempo, bisogna accontentarsi delle predizioni dipendenti dai risultati delle attuali procedure sperimentali, con tutti i limiti che questo comporta.

Siti e lavori consultati.

Nobel Prize in Chemistry 2024

https://www.nobelprize.org/prizes/chemistry/2024/press-release/

https://www.science.org/doi/10.1126/science.653353

https://febs.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1742-4658.2007.06242.x

https://www.nobelprize.org/prizes/chemistry/2013/press-release/

Il Nobel per la Chimica 2024 tra innovazione e criticità

* Raffaele Ragone, Chimico e Strutturista Molecolare presso l’Università “Federico II” di Napoli, ha svolto ricerche nel campo della Chimica fisica delle proteine. È in pensione e dal 2008 cura il blog RaffRag’s Una Tantum (https://raffrag.wordpress.com).

Aggiornamento PFAS.

17 ottobre, 2024 - 17:27

Claudio Della Volpe

Ormai è diventata una triste consuetudine riportare le novità sui PFAS; come forse sapete la SCI ha iniziato una operazione di discussione interna che però ha portato ad una sola riunione e al momento non riesce a procedere, nonostante (lo riconosciamo) gli sforzi del Presidente attuale.

Al contrario le associazioni ambientaliste sono molto attive; GreenPeace ha iniziato una serie di analisi a raggio nazionale che prevedono la determinazione della presenza dei PFAS in tutte le regioni italiane.

Anche sul tema generale la risposta a Draghi (probabilmente male informato) che ha dichiarato che sui PFAS non ci sono alternative viene non da noi, ma dalle medesime organizzazioni ambientaliste.

https://www.greenpeace.org/italy/tag/pfas/

In particolare ChemSec, l’organizzazione ambientale no profit fondata in Svezia nel 2002 che si batte per ottenere controlli normativi più severi sulle sostanze chimiche potenzialmente pericolose e ridurne la presenza nelle produzioni delle aziende ha costruito una pagina sui PFAS che vi invitiamo a leggere dove oltre alla denuncia delle situazioni di inquinamento ci sono anche le possibili azioni di sostituzione.

Con lo slogan Wrapped in chemicals, l’associazione sottolinea ciò che ormai è sotto gli occhi di tutti, ma che spesso dimentichiamo o sottovalutiamo: siamo circondati da queste sostanze che sono nocive per noi e per l’ambiente.

Sulla pagina di ChemSec si trovano moltissime utili informazioni sul tema cosa sono, dove sono e come sostituire i PFAS:

https://pfas.chemsec.org/

I PFAS sono arrivati anche in TV dove la trasmissione di RAI3 PresaDiretta ha parlato ampiamente dei PFAS , ha invitato GreenPeace e le Mamme NO PFAS per parlarne ed ha anche intervistato varie aziende europee che usano già da anni prodotti dichiarati SENZA PFAS. Le aziende intervistate, della filiera tessile, sono in Danimarca (fra l’altro c’è una ripresa molto interessante del giornalista che col giubbotto impermeabile senza PFAS va sotto la doccia e ne esce asciutto. Da vedere).

https://www.raiplay.it/programmi/presadiretta?wt_mc%3D2.app.cpy.raiplay_prg_Presadiretta.%26wt

Riportiamo infine alcune informazioni generali sulle iniziative legislative nei vari paesi, invitando i nostri lettori a fare pressione in tutti i modi perché anche i chimici italiani prendano ufficialmente posizione sul tema ed entrino (finalmente) in campo.

Prossima restrizione “universale” dei PFAS

La proposta di una cosiddetta restrizione “universale” per i PFAS è stata lanciata da 5 paesi europei e pubblicata nel febbraio 2023. Il punto di partenza è che tutti i PFAS, compresi i fluoropolimeri e i gas fluorurati, dovrebbero essere limitati in tutte le applicazioni.

Cinque Stati membri dell’UE sostengono la proposta, che sarà ora discussa nell’arco di un paio d’anni fino all’entrata in vigore prevista per il 2025 o il 2026. Le discussioni principali riguarderanno le deroghe proposte alla restrizione per alcune applicazioni in cui non sono ancora disponibili alternative. Le deroghe saranno limitate a 5 o 12 anni.

Sono previsti diversi periodi di consultazione in cui le parti interessate possono fornire contributi sulla proposta. Particolarmente preziose sono le informazioni sulla disponibilità di alternative per le applicazioni di cui si propone l’esenzione dalla restrizione.

Negli Stati Uniti: In assenza di normative federali sui PFAS negli Stati Uniti, diversi Stati hanno preso iniziative per regolamentare i PFAS. Alcune normative riguardano gruppi di prodotti specifici, altre si concentrano su gruppi di popolazione particolarmente vulnerabili, come i bambini piccoli o i lavoratori. Esistono anche obblighi di rendicontazione, ad esempio per rivelare la presenza di PFAS aggiunti intenzionalmente nei prodotti. In California, Maine, New York sono già in vigore alcuni divieti sui PFAS, e in tutti questi stati sono previste ulteriori normative che entreranno in vigore nei prossimi anni. Fino al 2028, anche Washington, Minnesota, Vermont, Maryland, Colorado, Connecticut e Hawaii introdurranno normative sui PFAS.

A livello internazionale, diversi PFAS sono regolamentati a livello globale dalla Convenzione di Stoccolma perché sono stati aggiunti in allegato alla convenzione stessa anche se abbastanza recentemente; tra gli altri PFOA, PFAS e PFHxS. (nel 2020 aggiunti in all. A Acido perfluoroottanoico (PFOA), suoi Sali e composti a esso correlati, aggiunti in allegato B Acido perfluorottano sulfonato, i suoi Sali e floruro di perfluorottano e sulfonile (PFOS))

(Nota suggerita da Luigi Campanella)

Molto di recente è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea la Comunicazione della Commissione intitolata ‘Linee guida tecniche sui metodi d’analisi per il monitoraggio delle sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) nelle acque destinate al consumo umano‘.

Nel documento si evidenzia che “in tutta l’UE si registra un aumento dei casi di alta concentrazione di PFAS nelle acque dolci, comprese quelle potabili”. Per questo motivo, la Commissione ha emanato queste nuove linee guida per accelerare il monitoraggio dei PFAS con criteri uniformi a livello europeo, in conformità con la direttiva (UE) 2020/2184, recepita in Italia con il D.Lgs. 23 febbraio 2023, n.18.

La normativa ha introdotto due parametri per i PFAS: il parametro “PFAS – totale”, con un limite di 0,50 µg/l, e il parametro “somma di PFAS”, che include un gruppo specifico di molecole di particolare preoccupazione, con un limite di 0,10 µg/l.

I limiti di quantificazione (cioè la concentrazione minima rilevabile di un analita in un campione d’acqua) non devono superare 0,15 µg/l per il parametro “PFAS – totale” e 0,03 µg/l per la “somma di PFAS”. Per le singole sostanze, il limite dovrebbe essere inferiore a 1,5 ng/l, con soglie ancora più basse per le molecole di maggiore rischio tossicologico, come PFOA e PFOS.

La nuova Comunicazione della Commissione richiama le definizioni dei due parametri riportati nel D.Lgs. 23 febbraio 2023, n.18, e le relative regole tecniche, fornendo indicazioni sui metodi analitici raccomandati per la loro quantificazione. Queste indicazioni sono valide anche per la determinazione dei PFAS nelle matrici ambientali.

In particolare, per il parametro “somma di PFAS”, vengono suggeriti i metodi delle parti A e B della norma EN 17892:2024 (recepita e pubblicata dall’UNI il 18/07/2024), la prima norma convalidata attraverso uno studio interlaboratorio europeo che soddisfa i requisiti stringenti dei bassi limiti di quantificazione e dell’incertezza di misura.

La norma EN 17892:2024 è applicabile anche per l’individuazione di inquinanti in acque ambientali. La Comunicazione specifica inoltre che è possibile utilizzare altri metodi standard equivalenti, purché rispettino i medesimi requisiti.

Gli Stati membri dell’UE hanno tempo fino al 12 gennaio 2026 per conformarsi alle disposizioni della normativa sul monitoraggio dei PFAS, inclusa la definizione della frequenza di campionamento, che può essere stabilita anche sulla base delle valutazioni di rischio del bacino idrografico e del sistema di fornitura dell’acqua.

Il clima che cambia. Necessità di uno sviluppo sostenibile. Recensione

13 ottobre, 2024 - 07:24

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Il clima che cambia. Necessità di uno sviluppo sostenibile. di Silvano Focardi – Ed Betti 100p. 14 euro.

Ho letto con interesse e con curiosità il breve testo di Silvano Focardi, ed. Betti, dedicato al Clima che cambia. L’interesse deriva dalla mia formazione culturale, la curiosità dal fatto che sull’argomento si è scritto così tanto che diviene difficile dire qualcosa di nuovo. Ed invece Silvano c’è riuscito.

Ricordiamo che Silvano Focardi è stato ordinario di ecologia e poi Rettore a Siena.

Il testo parte dall’effetto serra e dalle sue oggettive cause ma poi passa ad esaminarne effetti secondari meno discussi e riflessi sociali.

Così apprendiamo che il Nino come conseguenza dell’effetto serra è responsabile della caduta economica di Paesi come il Perù e l’Equador per la incidenza sull’industria della Pesca, che le barriere coralline potrebbero morire con conseguenti perdite non solo ambientali, ma anche economiche, che la fusione dei ghiacciai e delle calotte polari con la ridotta riflessione in tutte le direzioni della radiazione solare se continuasse fino alla completa fusione produrrebbe un innalzamento dei livelli marini di oltre 70 m, che la diversità biologica viene messa in pericolo con specifici riferimenti a casi di specie e qui Focardi compie un approfondimento veramente apprezzabile individuando specie infestanti e specie a rischio estinzione nelle relative aree geografiche.

Nel libro si parla anche di sostenibilità e di confronto fra generazioni, arrivando a denunciare in mancanza di sostenibilità vere e proprie ingiustizie intergenerazionali.

Ho anche molto apprezzato il riferimento alla popolazione mondiale che da un lato cresce, 8 miliardi oggi, e che ovviamente impone scelte in favore di risorse alimentari, ambientali e civili, a volte in contrasto con quelle ambientali e dall’altro, con situazioni demografiche così sbilanciate, come le attuali-Cina, India a un estremo, l’Europa all’altro -finisce per incidere su consumi ed impronta ecologica, anche con riferimento a vere e proprie trasmigrazioni già da oggi in atto.

Simulazione molecolare e chimica.

9 ottobre, 2024 - 10:34

Luigi Campanella, già Presidente SCI

I chimici per lungo tempo nella loro storia hanno sviluppato ricerche finalizzate a dare una risposta a domande del tipo:

perchè una reazione per partire in molti casi ha bisogno di un partner specifico?

perché al contrario molte reazioni si fermano in presenza di specifici composti anche se presenti a livello di impurezza?

Domande simili in medicina e biologia potrebbero essere: perchè alcuni farmaci sono attivi con alcuni pazienti e non con altri, oppure perché lo stesso virus – COVID insegna- produce danni differenziati in misura così drammatica (da un raffreddore alla morte!).

Rimanendo alla chimica finchè le leggi e le regole erano quella della chimica classica queste domande non hanno avuto la risposta che invece ha iniziato ad arrivare con lo sviluppo della chimica quantistica. Questa descrive in termini di probabilità statistica il comportamento di sistemi di dimensioni atomiche o subatomiche (elettroni, nuclei, atomi, molecole ecc..), i quantum dots, in particolare la loro capacità di interagire con elettroni e lacune elettroniche producendo atomi artificiali  su livelli energetici discreti, che consente di disporre di sistemi conoscitivi e diagnostici, preziosi per interpretare la catalisi enzimatica, per supportare la medicina preventiva, per sostenere gli interventi di pronto soccorso di urgenza.

Usando metodi di simulazione molecolare vengono indagati fenomeni macroscopici basati sulla conoscenza delle interazioni molecolari. Questo per ottenere proprietà strutturali, termodinamiche e di trasporto che dipendono da variabili quali pressione e temperatura.

CHIMICA. UN APPROCCIO MOLECOLARE 3A EDIZIONE

Con questo approccio viene abbassato il livello dimensionale di indagine, ma come conseguenza ne risulta la necessità da un lato di disporre di opportunità sperimentali adeguate e dall’altro di abbassare anche i livelli di complessità. Per quanto riguarda il primo punto le nanotecnologie con il loro sviluppo in due direzioni, miniaturizzazione della strumentazione più avanzata e finalizzazione a scopi analitici di nuove proprietà derivate dalla dimensione subatomica, hanno dato e stanno dando un contributo sostanziale.

L’altro punto riguarda il rapporto macro/micro dal punto di vista chimico. Quando avviene una reazione chimica quanto vediamo è in effetti un risultato medio. Scrivendo, ad esempio, una reazione fra acqua e solfato di rame noi in effetti nei 18 g della molecola di acqua coinvolgiamo 1023 (numero di Avogadro) molecole di acqua e ove sia possibile evidenziare differenze nello spettro di comportamento di queste, quello dal quale risulta la media, possiamo contribuire da altro punto di vista e con altro approccio ad estendere le applicazioni della chimica quantistica.

Una reazione chimica è proprio un processo in cui si verificano collisioni tra atomi e molecole e relativi processi di scattering. È plausibile che vi si possano verificare, quindi, fenomeni di interferenza quantistica rappresentati dall’interazione e combinazione di forme d’onda che danno origine ad una nuova onda nella quale l’ampiezza può essere rinforzata o annullata. Analogamente, in parole molto semplici, l’interferenza quantistica si verifica tra particelle diverse che arrivano allo stesso punto provenendo da percorsi diversi. In realtà, i calcoli che si devono affrontare sono talmente complessi, che la prospettiva di raggiungere tali obiettivi ha dovuto essere procrastinata sin quasi alla fine del secolo scorso, quando la disponibilità di supercalcolatori ha permesso di affrontare in modo concreto lo studio dei sistemi a molti corpi, formati dai nuclei atomici e dagli elettroni che gravitano attorno a essi.

Fintanto che i menzionati mezzi di calcolo non sono diventati di agevole applicazione, la chimica quantistica ha potuto affrontare solo problemi di carattere concettuale o fruire di modelli semi-empirici mutuati dalle conoscenze sperimentali. 

Legame covalente C-C con un solo elettrone

4 ottobre, 2024 - 18:16

DiegoTesauro

Il titolo di questo post avrà sicuramente lasciato alquanto interdetti la maggioranza dei lettori. E’ ben noto che la formazione di un forte legame covalente implica la condivisione fra atomi di almeno una coppia di elettroni. In realtà gli atomi possono interagire in differenti modi e Linus Pauling nel 1931 aveva previsto la formazione di un legame con la compartecipazione di un solo elettrone [1]. Il due volte premio Nobel aveva così definito la stabilità di un legame a singolo elettrone mediante energia di risonanza:  Un legame ad un elettrone stabile può formarsi solo quando sono concepibili due stati elettronici del sistema con essenzialmente la stessa energia, gli stati differiscono in quanto per uno c’è un elettrone spaiato legato a un atomo, e per l’altro, lo stesso elettrone spaiato, è legato al secondo atomo. Questo criterio poteva essere soddisfatto o nella molecola H2+ oppure nella molecola H3+ .In realtà l’estrema reattività di queste specie e le tecnologie a disposizione all’epoca avevano reso impossibile verificare l’esistenza di questo legame fino agli anni novanta quando venne messo in evidenza l’esistenza di un legame ad elettrone singolo fra due atomi di fosforo [vedi nota a piè pagina]. Recentissimamente è stato pubblicato sulla rivista Nature  il primo caso di un composto relativamente stabile con un legame a singolo elettrone  fra due atomi di carbonio [2]. Finora però i legami C-C ad un elettrone non erano stati isolati. È importante notare che, sebbene le specie con legami C-C a un elettrone di tipo σ sono stati proposti come intermedi nelle reazioni chimiche come il riarrangiamento di Cope https://it.wikipedia.org/wiki/Riarrangiamento_di_Cope , non vi era alcuna prova sperimentale, ad esempio di tipo cristallografico a raggi X, per legami sigma a un elettrone tra atomi di carbonio. Ora questa ricerca potrebbe sembrare una semplice curiosità di un composto “esotico”. In realtà questo risultato, oltre a validare la teoria di Pauling di un legame covalente ad un elettrone, può aprire la strada ad un ulteriore sviluppo in diverse aree della chimica, esplorando il confine tra stati legati e non legati.

Per ottenere questo risultato gli autori dello studio sono partiti da un derivato dell’esafeniletano, in quando questa specie può essere ossidata generando i trifenilmetil catione ed i trifenilmetilradicale che notoriamente sono dei carbocationi e radicali stabili.

Il composto di partenza contiene due unità di spiro-dibenzocicloheptatriene (Figura 1a 1). Questo composto ha un legame fra gli atomi C1 e C2 di 1.8 Å molto allungato per ragioni steriche maggiore di un normale legame C-C ad 1.6 Å. Questa caratteristica genera la possibilità di una ossidazione con perdita di un elettrone di legame. Infatti il composto 1 trattato con iodio viene ossidato producendo la specie con un legame ad un elettrone (Figura 1a 1•) e la specie I3–. La presenza del legame σ C-C a un elettrone è stata confermata sperimentalmente dall’analisi di diffrazione a raggi X a cristallo singolo in quanto la lunghezza del legame (2.921(3) Å a 100 K) è inferiore al doppio del raggio di Van der Waals degli atomi di carbonio 3.4 Å. Un’ulteriore ossidazione genera la specie biscationica (Figura 3a 12+)

   Figura 1 a, Conversione redox del composto 1. b-d, strutture a raggi X di 1 (b), di   1• +I3 (d) a 100 K e 1 2+(I3)2 (c) a 110 K. Nella tabella sottostante le distanze di legame  Copyright Nature

 Ulteriore conferma gli autori l’ottengono dalla spettroscopia Raman, e teoricamente dai calcoli della teoria del funzionale della densità. L’importanza di legami ad un solo elettrone possono essere di supporto anche nello studio della chimica organica nello spazio e quindi allo studio della formazione di quelle molecole che poi hanno dato la possibilità della presenza della vita sulla Terra.

Riferimenti

[1] Pauling, L. J. Am. Chem. Soc. 53,3225-3238 (1931) https://testpubschina.acs.org/doi/10.1021/ja01360a004

[2] Shimajiri, T. et al. Nature (2024). https://doi.org/10.1038/s41586-024-07965-1

NOTA

Con l’avvento delle moderne tecniche di analisi è stato possibile evidenziare inizialmente la presenza di un legame fosforo-fosforo a singolo elettrone [3] Era stato isolato un analogo del tetrafosfobenzene diradicalico. Le analisi mediante la spettroscopia NMR e la diffrazione ai raggi X (Figura 2) hanno permesso di concludere che il derivato triciclico presenta legami fosforo-fosforo a un elettrone, che derivano dall’interazione π*-π* tra due radicali difosfirinili.

Figura 2 Struttura della molecola. La lunghezza del legame in angstroms è P1–P2, 2.205(3); P1–P2a, 2.634(3); P1–C1, 1.743(6); P2–C1, 1.738(6); C1–N1, 1.336(7). La lunghezza del legame P1-P2a è maggiore di qualunque legame fosforo-fosforo riportato in letteratura, ma inferiore al doppio del raggio di Van der Waals (3.8 Å)  Copyright Science

L’esistenza di un legame fosforo-fosforo fu dimostrata qualche anno dopo anche mediante la spettroscopia EPR anche per la molecola   2,6-Bis(trimetilsilil)-3,5-dimethilfosfinina [4] (Figura 3) che ha permesso anche la caratterizzazione di un legame B-B, successivamente confermato da una caratterizzazione cristallografica, integrata da una dettagliata validazione quantomeccanica, per un anione radicale caratterizzato da un B-B [5]. Gli esempi però rimanevano confinati a questi due elementi.

Un interessante studio, una decina di anni fa, diede conferma della possibilità di isolare specie al di là della fase gassosa o in matrice solida instabili anche fra elementi diversi [6]. In particolare fu isolato e  caratterizzato un complesso con legame ad un elettrone Cu−B, come  così come la specie ad essa collegata ossidata (con gli atomi di fosforo non legati) e ridotta (con i due atomi legati da due elettroni) (Figura3). Questa triade ha fornito un’ottima opportunità per studiare il grado di legame sigma in un metallo boro in funzione del numero di elettroni condivisi.

Figura 3 In alto le specie caratterizzate mediante spettroscopia EPR con legame ad un elettrone P-P e B-B, confermato mediante spettorscopia a raggi X [4][5]. In basso i complessi di rame in cui il complesso al centro può ridursi o ossidarsi rispettivamente rompendo il legame a singolo elettrone oppure formandone uno con una coppia di elettroni [6].

[3]Canac, Y. et al. Science 279, 2080–2082 (1998) https://doi.org/10.1126/science.279.5359.20.

 [4] Cataldo, L.  et. al. J.Am. Chem. Soc. 123, 6654−6661 (2001) “https://doi.org/10.1021/ja010331r

[5]Huebner, A. et. al.  Angew Chem Int Ed Engl 53(19), 4832-4835 (2014) “https://doi.org/10.1002/anie.201402158

[6]Moret, M.E. et al. J. Am. Chem. Soc. 135, 3792–3795 (2013). https://doi.org/10.1021/ja4006578

Copyright © 2012 Società Chimica Italiana. All Rights Reserved.