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BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'

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Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Aggiornato: 4 settimane 3 giorni fa

Il paradosso della CO2.

22 agosto, 2023 - 09:22

Claudio Della Volpe

Roger Revelle e Hans E. Suess, che iniziarono i rilevamenti nel 1958 nel corso dell’anno geofisico internazionale, dissero: “il genere umano sta conducendo un gigantesco esperimento geofisico, inimmaginabile in passato e irripetibile in futuro: nel giro di qualche secolo immetteremo nell’atmosfera e negli oceani tutto il carbonio organico immagazzinato nei sedimenti durante centinaia di milioni di anni”.

Si riferivano all’immissione di gas serra, principalmente diossido di carbonio e metano.

Ma come si fa la misura della CO2 in atmosfera?

La misura della CO2 atmosferica avviene di solito tramite un metodo spettroscopico; un sensore nel vicino infrarosso, NIR, misura la differenza fra l’emissione da una sorgente standard e quella ricevuta e attribuisce la differenza a quella presente in atmosfera.

E’ un fenomeno espresso dalla legge di Lambert-Beer che tutti i chimici studiano e che ci aiuta a capire come fa un tenue strato di gas serra ad avere un effetto così significativo. D’altronde questo è uno dei paradossi della divulgazione climatica; si parla sempre di modelli climatici, ma questi sono sviluppati in termini fisici, ossia ragionando sull’equilibrio radiativo del sistema atmosferico e non sui meccanismi di assorbimento; ossia usando la relazione di Stefan-Boltzmann e non la relazione di Lambert e Beer che tutti i chimici studiano; in pratica il gas si misura con metodi tipici della chimica ma poi il modello climatico è basato su una relazione che spesso un chimico non conosce o non conosce bene (la Stefan-Boltzmann, emissione di corpo nero a volte studiata superficialmente a Fisica 2); cerchiamo allora una volta tanto di fare ammenda e di capire se la legge di Lambert e Beer ci fa capire questa questione dell’assorbimento IR.

Un moderno sensore per temperatura, umidità e CO2 costa meno di 60 dollari incluso il display. https://www.adafruit.com/product/4867

L’uomo inala l’ossigeno presente nell’aria durante l’inspirazione e rilascia anidride carbonica nell’aria durante l’espirazione. L’aria inspirata contiene il 21% di ossigeno e lo 0,035% di anidride carbonica. L’aria espirata, invece, contiene solo il 16% di ossigeno, ma già il 4% di anidride carbonica. L’anidride carbonica è tossica per l’uomo ad una concentrazione del 2,5%, ma già a partire da una concentrazione dello 0,08% (800 ppm) di anidride carbonica le prestazioni, la concentrazione e il benessere sono compromessi (per noi e anche per altri esseri viventi, gli insetti per esempio sono molto sensibili alla concentrazione di CO2).
Il NIR è la porzione di spettro elettromagnetico compresa tra la luce visibile (VIS) e la luce nel medio infrarosso (MIR).

Quando esposta ad opportuna sorgente luminosa, una molecola assorbe i fotoni e avvia il processo noto come transizione vibrazionale: stretching, bending, wagging, ecc. tipici anche dell’infrarosso medio.


L’origine degli spettri NIR è imputabile alla variazione di stato vibrazionale delle molecole: il processo di promozione ad uno stato vibrazionale eccitato (o il susseguente rilassamento allo stato fondamentale) provoca un’assorbimento/emissione di luce infrarossa che viene registrata mediante un opportuno detector.

Una prima osservazione da fare è che la bassa concentrazione PERCENTUALE della CO2 (0.04%) o anche dell’acqua in atmosfera (pochi percento) ci interessa poco per capirci qualcosa; i due gas dominanti dell’atmosfera, ossigeno e azoto NON assorbono nell’infrarosso e dunque, a parte il loro contributo alla pressione totale, che fa variare un po’ la larghezza di banda degli altri, non hanno effetti significativi sull’assorbimento dell’infrarosso da parte della CO2 o dell’acqua, possiamo trascurarli nel nostro calcolo approssimativo. Ci torneremo dopo comunque.

Quella che conta è la costante di assorbimento che compare nella relazione di Lambert e Beer che dipende dal prodotto cammino ottico per concentrazione per coefficiente di estinzione o attenuazione.

La legge di Lambert-Beer è una legge apparentemente lineare che recita: A = εLc

Dove

  • A è l’assorbanza (legata alla frazione di radiazione assorbita, vedi definizione successiva)
  • ε è il coefficiente di attenuazione o di estinzione
  • L (o l) la lunghezza del cammino ottico
  • c la concentrazione del materiale.

Però l’assorbanza è legata all’intensità da un rapporto logaritmico e qua sta il trucco!

La trasmittanza, T, ossia il rapporto fra la intensità che attraversa il materiale I1 e di quella che arriva I0 è un esponenziale NEGATIVO dell’assorbanza. Per una assorbanza A unitaria la T corrisponde a 0.3678, ossia ad assorbanza unitaria passa il 37% circa della radiazione; ad una assorbanza 10 invece passa lo 0.0045% della radiazione incidente.

A sua volta l’assorbanza dipende linearmente dal cammino ottico L(o l), dalla concentrazione della molecola assorbente e dal suo intriseco assorbimento, il coefficiente di estinzione o di attenuazione molare.

L’assorbanza è una grandezza adimensionale e dunque quali sono le dimensioni delle varie quantità in gioco?

Se l’assorbanza è proporzionale alla lunghezza del cammino ottico il prodotto εc (= klambda) deve avere le dimensioni del reciproco di una lunghezza in modo da rendere l’esponente A adimensionale.

In altri termini il fattore εc può essere posto uguale a una costante (= klambda), dipendente solo dalla lunghezza d’onda considerata, ma con le dimensioni del reciproco di una lunghezza.

Se misuro la lunghezza del cammino ottico in metri la costante di attenuazione εc avrà le dimensioni di m-1 se la misuro in dm o cm le avrà in dm-1 o cm-1 e il suo valore numerico cambierà in proporzione.

Se uso la concentrazione molare in mol/m3 allora la ε sarà obbligatoriamente espressa in m2/mol. Nel caso di una soluzione che esprima la concentrazione in moli/litro le unità della ε saranno invece dm2/mol.

(Dite la verità ci avevate mai pensato alle dimensioni del coefficiente di estinzione “molare”?

Una superficie per mole!)

Quanto vale questa costante per la CO2 in atmosfera?

Delle tre bande di assorbimento della CO2 una (lo stretching simmetrico) è proibita e le due bande rimanenti assorbono a 4.3micron (2349cm-1, lo stretching asimmetrico)  e a 15micron (666cm-1, il bending).

Quanto vale il coefficiente di attenuazione in queste due bande? La risposta è nel grafico qui sotto:

Peng-Sheng Wei, Yin-Chih Hsieh, Hsuan-Han Chiu, Da-Lun Yen, Chieh Lee, Yi-Cheng Tsai,  Te-Chuan Ting. Absorption coefficient of carbon dioxide across atmospheric troposphere layer.  Heliyon 4 (2018) e00785.  doi: 10.1016/j.heliyon.2018. e00785

La quantità sull’asse verticale è la costante εc.

Se si usasse questo parametro, in 200 metri la transmittanza, il parametro T si azzererebbe nel caso della radiazione a 4.3 micron; diciamo che l’assorbimento dell’infrarosso non è dunque un problema, dato che lo spessore effettivo dell’atmosfera è molto maggiore, si tratta di chilometri; piuttosto, al contrario di quel che si possa pensare, messa così l’assorbimento è eccessivo, perché in realtà la radiazione infrarossa emessa dal suolo in parte (circa il 10% ) sfugge nello spazio dopo aver attraversato tutta l’atmosfera. Quale è la spiegazione di questa apparente contraddizione?

Beh il nostro calcolo è sempliciotto; anzitutto abbiamo usato una atmosfera a composizione costante, i 200 metri sarebbero tutti alla massima pressione e dunque alla massima densità di molecole; invece l’atmosfera non è fatta così, sia la sua densità (che la sua temperatura) variano con l’altezza e dunque nei vari strati i coefficienti di estinzione sono tutti diversi alle diverse altezze; la pressione diminuisce e il numero di molecole che assorbe diminuisce a sua volta, consentendo alla T di rimanere diversa da zero.

Nel medesimo lavoro si introduce la spiegazione analitica, legata appunto alla variazione di pressione e di temperatura, fattori che agiscono entrambi sulla densità delle molecole per unità di volume attraversato dalla radiazione.

In quest’altra figura vediamo i valori dei coefficienti di estinzione espressi in una scala diversa, ma sostanzialmente sovrapponibili ai precedenti.

Absorption spectra for all HITRAN molecules at 300 K, 1 atm, calculated with RADIS (http://radis.github.io/Technical Report · February 2020

Questa figura ha una scala verticale in cm-1, invece che in m-1; ne consegue che i valori numerici sulla scala verticale (che sono anche riportati in scala logaritmica) sono 100 volte maggiori di quelli della figura precedente.

Non voglio diventare noioso e a questo punto mi fermo, ma spero di aver chiarito come e perché nonostante la sua piccola concentrazione la CO2 abbia un ruolo importante nella discussione dell’effetto serra terrestre; per fare questo ho usato una espressione che è conosciuta da tutti i chimici, anche quelli che non hanno mai studiato la chimica-fisica dell’atmosfera, ma solo la chimica analitica; dopo tutto la concentrazione dei gas serra si misura per via spettrofotometrica e questa misura ai chimici è molto familiare. Chissà se in questo modo eviteremo commenti negazionisti sul nostro blog. Voi che ne dite?

Per approfondire.

Sul rapporto fra gli effetti dell’acqua e del diossido di carbonio sul clima si veda anche il post  https://ilblogdellasci.wordpress.com/2021/12/17/leffetto-serra-dellacqua/

e per dati complessivi sui fatti climatici il più recente:

Banalità di base.

Un lavoro semplice ma che fa vedere come si ragiona in modo esatto per tener conto dei fattori pressione e temperatura per una determinata lunghezza d’onda è stato pubblicato su J. Chem. Ed.  Journal of Chemical Education • Vol. 74 No. 3 March 1997 p. 316, CO2 Absorption of IR Radiated by the Earth Chad A. Meserole, Francis M. Mulcahy, John Lutz, and Hashim A. Yousif

Un lavoro di contatto fra i due approcci potrebbe essere CALCULATION OF ATMOSPHERIC RADIATIVE FORCING (WARMING EFFECT) OF CARBON DIOXIDE AT ANY CONCENTRATION  di H. Douglas Lightfoot and Orval A. Mamer (Canada) ENERGY & ENVIRONMENT  VOLUME 25 No. 8 2014

Infine un ulteriore testo didattico da usare è quello da cui è tratta la seconda immagine del post, http://jvarekamp.web.wesleyan.edu/public_htmlA/public_htmlA/CO2/FP-1.pdf

un testo didattico non pubblicato su rivista, ma usato nell’attività didattica quotidiana.

Contaminanti organici nella Stazione Spaziale Internazionale (ISS)

19 agosto, 2023 - 09:50

Rinaldo Cervellati

Rebecca Trager, corrispondente senior per Chemistry World, il 10 agosto scorso ha fatto un breve riassunto della recentissima ricerca pubblicata su Environ. Sci. Technol. Lett., (August 8, 2003, DOI: 10.1021/acs.estlett.3c00448, open access) riguardo l’inquinamento da micro o nano particelle di sostanze organiche pericolose negli ambienti dell’ISS. Poiché mi sembra un argomento importante ho deciso di tradurre, adattandolo, il pezzo di Trager [1].

È risultato che i livelli di composti organici potenzialmente dannosi nella polvere a bordo della Stazione Spaziale Internazionale sono più alti di quelli trovati negli edifici degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale. È la prima volta che vengono rilevate sostanze chimiche organiche persistenti in un ambiente non terrestre e il gruppo che ha effettuato le analisi afferma che i risultati influiranno le future scelte sui materiali per i veicoli spaziali con equipaggio.

La ISS rappresenta un ambiente interno unico, in cui esseri umani hanno vissuto da più di due decenni. Le particelle non si depositano in un ambiente privo (o quasi) di gravità, ma rimangono nell’aria andando alla deriva in base ai tipi di ventilazione prima di depositarsi sulle superfici e sulle prese d’aria. Ciò significa che gli schermi che coprono i filtri dell’aria della ISS accumulano detriti e devono essere aspirati settimanalmente per mantenere una filtrazione efficiente ed evitare di sovraccaricare le ventole di ventilazione.

Scienziati dell’Università di Birmingham, nel Regno Unito, e del Glenn Research Center della Nasa negli Stati Uniti hanno misurato le concentrazioni di molte sostanze chimiche nella polvere raccolta dagli schermi del filtro dell’aria della ISS (figura 1).

Figura 1

I contaminanti trovati in questa “polvere spaziale” includono eteri di difenile polibromurato (PBDE), esabromociclododecano, ritardanti di fiamma bromurati, esteri organofosfati, idrocarburi policiclici aromatici, bifenili policlorurati e sostanze perfluoroalchiliche (PFAS). In particolare la concentrazione dei PFAS va da 3,5 a 50 ng/g, eccettuato il PFOA con ben 2600 ng/g.

Mentre le concentrazioni di tutte queste classi di composti hanno spesso superato i valori mediani nei microambienti interni negli USA e nell’Europa occidentale, sono generalmente all’interno dell’intervallo trovato sulla Terra.

Ci sono diverse potenziali fonti di contaminazione sulla ISS. Precedenti ricerche hanno evidenziato che la maggior parte delle emissioni sono particelle carboniose, di cui i frammenti di pelle umana costituiscono la percentuale maggiore. L’aerostazione ospita anche molti carichi unici che coinvolgono materiali esotici, quindi la sua polvere nel vuoto può talvolta riflettere concentrazioni più elevate di alcuni composti che non sono tipicamente presenti nell’aria dell’abitacolo.

Poiché i veicoli spaziali sono vulnerabili al fuoco, è stata prestata molta attenzione all’infiammabilità dei contenuti della ISS. Molti dei materiali utilizzati per la sua costruzione e il suo funzionamento sono fatti su misura, ma ci sono anche numerosi piccoli componenti commerciali che probabilmente contengono ritardanti di fiamma e altre sostanze chimiche, osservano i ricercatori, come ad esempio fotocamere, utensili elettrici, lettori mp3, tablet, computer, dispositivi medici e abbigliamento.

Alti livelli di radiazioni ionizzanti possono anche far invecchiare i materiali più rapidamente del normale, inclusa la scomposizione dei prodotti in plastica in microplastiche e nanoplastiche che possono disperdersi nell’aria nell’ambiente di scarsa (quasi nulla) gravità.

Mentre le concentrazioni della maggior parte dei PFAS nella polvere della ISS sono all’interno dello stesso intervallo delle loro concentrazioni nella polvere domestica degli USA, l’acido perfluoroottanoico (PFOA) è, come già ricordato, presente a una concentrazione più elevata. I ricercatori suggeriscono che ciò potrebbe riflettere l’applicazione di formulazioni impermeabilizzanti di un protettore per tessuti al fine di prevenire la crescita microbica.

In una dichiarazione sul sito web dell’Università di Birmingham, il chimico ambientale Stuart Harrad, coordinatore della ricerca,  ha affermato che il gruppo spera che le sue scoperte guideranno la progettazione e la costruzione del futuro veicolo spaziale, sostenendo che “Le nostre scoperte hanno implicazioni per le future stazioni spaziali e gli habitat, dove potrebbe essere possibile escludere molte fonti contaminanti mediante attente scelte dei materiali nelle prime fasi di progettazione e costruzione”.

[1] R. Trager, Space dust has more organic contamination than the average US home, Chemistry World, 10 August 2023

L’acqua pì a sauta e pi’ as purifica

14 agosto, 2023 - 11:49

Mauro Icardi

Ho trascorso per molti anni le mie vacanze estive in un piccolo borgo della Val Chisone. Il paese si chiama Roure, e i miei genitori vi sono rimasti fedeli per decenni, tanto da essere stati premiati proprio per la loro fedeltà al piccolo borgo alpino. Un segno della sobrietà dei tempi, quando non era necessario spostarsi a centinaia o a migliaia di chilometri per trascorrere vacanze soddisfacenti. Anzi, negli anni 70 si usava ancora l’ormai quasi scomparso termine di villeggiatura. Ho un ricordo vivo e piacevole di escursioni in montagna, passeggiate sui sentieri, di una prima e importante educazione ambientale ricevuta dai miei genitori. E anche il ricordo di una maggiore attenzione e rispetto dei luoghi. Sembra strano a dirsi , ma mi sembra che allora ci fossero meno rifiuti a bordo strada o nei boschi. Durante le  escursioni era perfettamente normale raccogliere i nostri rifiuti nello zaino, invece di scaricarli nell’ambiente. Oggi non vedo la stessa attenzione, e questo è un triste segno dei tempi. Una permanenza decennale in un luogo di vacanza stabilisce anche dei legami duraturi e profondi con gli abitanti del luogo. La Val Chisone è percorsa dall’omonimo torrente. Uno degli immissari era il Rio Bourcet, un torrente che scendeva lungo l’omonimo vallone e che era una delle mete delle nostre passeggiate. Un giorno io e mio padre e un nostro amico del luogo stavamo passeggiando lungo la mulattiera che conduceva alla frazione che porta lo stesso nome, osservando i salti che l’acqua faceva, affascinati dalla sua limpidezza. Il nostro amico ci disse proprio questo: l’acqua più salta e più si purifica. Ricordo molto bene quel giorno e questa frase, perché poi di ossigeno nelle acque e in depurazione, della sua misura e del monitoraggio giornaliero mi sarei occupato per trent’anni esatti. A mio padre piaceva pescare ed era conosciuto e rinomato come pescatore e cercatore di funghi.

Figura 1 Mulattiera per il villaggio alpino di Bourcet nella stagione invernale.

Le sue prede come pescatore erano le trote fario, che all’epoca erano abbondanti nei vari torrenti della zona. La trota è un pesce che ha bisogno di una buona quantità di ossigeno disciolto. Nei torrenti dove la corrente è rapida e tumultuosa la concentrazione di ossigeno disciolto può arrivare fino a 7-10 mg/L.

La comunità dei viventi in un fiume muta lungo il percorso diversamente da un lago, dove invece cambia in funzione della profondità. Quindi proseguendo nel suo scorrere, quando  vi è sempre corrente, ma meno tumultuosa e l’ossigeno disciolto scende a valori intorno ai 4 mg/L, è più facile trovarvi il barbo. Fino ad arrivare al flusso laminare delle lanche o dei fiumi in pianura. Una concentrazione di ossigeno disciolto di circa 0,5 mg/L è gradita alla tinca, che è evidentemente un pesce dall’indole più spartana.

Il concetto che la turbolenza favorisca la dissoluzione dell’ossigeno è stato uno dei fattori dello sviluppo degli impianti di depurazione a fanghi attivi. Essendo un processo aerobico è estremamente importante il buon funzionamento del sistema di aerazione, non solo per garantire un sufficiente e uniforme rifornimento di ossigeno, ma anche per migliorare la miscelazione della sospensione acqua-fango.

L’apporto di aria deve essere monitorato con attenzione per non provocare una riduzione dell’assorbimento da parte della biomassa aerobica, e, allo stesso tempo, non è opportuno mantenere una concentrazione troppo elevata, per ragioni di tipo economico e anche perché una quantità eccessiva di ossigeno può portare  a vari inconvenienti tecnici, se non all’inibizione del processo depurativo nei casi estremi.

Non voglio dare a questo articolo un taglio troppo tecnico, anche perché in passato ho scritto in maniera che ritengo sufficientemente completa ed esaustiva delle varie fasi della depurazione. Posso ovviamente accennare ai vari sistemi di aerazione, dalle turbine superficiali ormai obsolete, passando per le spazzole Kessener che conosco solo per averne letto sui libri, fino ai diffusori a microbolle che sono ormai la tecnica più usata per il trasferimento dell’aria in vasca di ossidazione.

Figura 2 Mulattiera per il villaggio di Bourcet in estate.

Mi rimane il ricordo di come una frase che il nostro comune amico pronunciò dialetto torinese, ovvero “l’acqua pì a sauta e pi as purifica”, sia stata uno stimolo. Ma non solo, mi fa pensare a quanta saggezza e conoscenza ci sia nelle esperienze del passato. Credo se ne possa e se ne debba fare tesoro. Il rio Bourcet a quanto ne so non esiste più, o per meglio dire, dopo l’alluvione del 2008, è stato parzialmente imbrigliato e incanalato. Una struggente malinconia e forse pigrizia mi ha sempre impedito di ritornare nel piccolo borgo alpino, dove il ricordo dei miei genitori risulterebbe troppo struggente, e anche perché vedere la modifica dell’alveo di quel torrente mi riuscirebbe penosa. L’acqua, la sua gestione e preservazione dall’inquinamento è un tema affascinante, stimolante. E per questo ringrazio non solo l’amico Adelmo per quel pomeriggio degli anni 70, ma tutte le persone conosciute negli anni in quel borgo. Che l’acqua la conoscevano e la rispettavano, e che insegnavano a noi ragazzini ad averne cura.

La plastica nel cuore.

11 agosto, 2023 - 13:06

Claudio Della Volpe

Qualcuno potrebbe pensare che questo titolo voglia indicare che la plastica, una eccezionale invenzione umana degli ultimi 100 anni, sia nel cuore dei chimici per il ruolo positivo che svolge nella nostra vita.

In altre occasioni potrebbe essere.

Ma stavolta il titolo del post è letterale e dipende dai risultati di un recentissimo lavoro pubblicato su Environmental Science and Technology.

Il lavoro parte dall’idea di individuare l’eventuale presenza di frammenti di plastica in organi “interni” del corpo,  dato che la sua presenza in organi “esterni” a contatto con l’ambiente o direttamente o tramite cavità è già stato dimostrato; i chirurghi hanno usato un piccolo numero di pazienti ma una tecnica sofisticata di microscopia spettroscopica e di immagini laser per individuare direttamente i materiali polimerici; l’ambiente era strettamente monitorato per evitare falsi positivi; il risultato è che 15 pazienti su 15 ammessi allo studio (esclusi solo chi ha rifiutato di partecipare o era in emergenza) sono stati trovati “positivi” alla presenza di microplastiche nel distretto cardiaco e nel sangue venoso; i frammenti sotto i 20 micron non potevano essere individuati. Non tutte le plastiche si trovano in tutti i i pazienti, ma plastiche si trovano in tutti i pazienti.

In un esperimento pilota, i ricercatori hanno raccolto campioni di tessuto cardiaco da 15 persone durante interventi chirurgici cardiaci, nonché campioni di sangue pre e post-operatorio da metà dei partecipanti. Quindi il team ha analizzato i campioni con imaging laser a infrarossi diretti e ha identificato da 20 a 500 particelle di larghezza micrometrica costituite da otto tipi di plastica, tra cui polietilene tereftalato, cloruro di polivinile e polimetilmetacrilato. Questa tecnica ha rilevato da decine a migliaia di singoli pezzi di microplastica nella maggior parte dei campioni di tessuto, anche se le quantità e i materiali variavano tra i partecipanti.

In sostanza i cuori dei cinesi (il lavoro è stato condotto a Pechino, in Cina) che arrivano al tavolo operatorio per problemi cardiaci sono inquinati da frammenti di plastica di piccole dimensioni. Questo il risultato concreto; quale percentuale di persone è inquinata? Le persone inquinate si ammalano tutte? Non lo sappiamo ancora ma la domanda deve essere posta.

Ho pochi dubbi che anche in altri continenti la situazione sia non molto diversa. Certo la situazione ambientale cinese è particolarmente compromessa, ma non necessariamente peggiore della nostra.

Una zuppa di plastica pervade il mondo intero non solo l’ambiente marino. Quali sono le conseguenze di questo inquinamento? E’ pensabile che solo le persone particolarmente inquinate si ammalino gravemente ed arrivino sul tavolo operatorio? Quante persone sono inquinate nei vari contesti ambientali? Dipende dal cibo, dall’ambiente, dall’acqua? Non lo sappiamo ancora.

A mio parere è difficile immaginare che le conseguenze siano positive o comunque non -negative; questo inquinamento è pericolosissimo e deve essere affrontato.

Vi dico la verità da questo momento la mia visione delle cose ne esce profondamente modificata; non posso più concepire una chimica incolpevole; ne esce rafforzata la mia convinzione che si era già formata negli anni che la Chimica deve prendere atto che non può sintetizzare e mettere in giro tutte le molecole e i legami utili a qualche scopo, ma SOLO quelli che l’ambiente naturale potrà distruggere.

Sarebbe bello poter controllare tutte le immissioni in ambiente ma non siamo in grado di farlo e dunque rilasciamo coscientemente miliardi di tonnellate di materiali che non sappiamo se potranno essere metabolizzati dal sistema naturale; in mancanza di tale metabolizzazione tali materiali si accumuleranno; lo ha fatto il DDT, lo hanno fatto le diossine e i PCB, lo han fatto i perfluorati; molecole spesso non esistenti in natura o legami raramente presenti sono da noi stati immessi in enorme quantità e in tutti i luoghi del pianeta; questa situazione non può continuare.

Prima di immettere una nuova molecola in giro occorrerà verificare che sia metabolizzabile (e a che velocità) oltre che innocua o non tossica; la sua utilità per alcuni non è una condizione sufficiente; mentre è NECESSARIO che sia metabolizzabile dal sistema oltre che innocua o a basso rischio, ma se si può accumulare anche se apparentemente “eterna” inalterabile dovremo rifiutarci di sintetizzarla o perfino di concepirla; siamo di fronte all’ingresso di un nuovo tabù.

Nuclei instabili, molecole tossiche e/o NON-biodegradabili non possono essere immessi in giro nell’ecosistema; i chimici organici e farmaceutici sono avvertiti. Noi tutti siamo avvertiti;

Se no ci ritroveremo plastica nel cuore (e nel cervello?).

E’ un passo epocale della chimica anche se avviene altrove. Il futuro della chimica e della sua etica deve essere questo: mai più sintetizzeremo molecole che la natura non sia in grado di metabolizzare in sicurezza e che si accumulino in giro. Siete avvisati; la condanna è compresa nell’atto; se lo farete vi ritroverete inquinati nel cuore (e forse nel cervello).

Vecchi dilemmi, nuove questioni.

8 agosto, 2023 - 18:58

Luigi Campanella, già Presidente SCI

È un problema vecchio quanto il mondo dei Beni Culturali: non porre limiti alla loro visibilità ed ostensione con ciò mettendone a rischio la stabilità e la vita stessa o al contrario limitare gli accessi proteggendo i Beni?

Il tema si ripropone in questi giorni per Venezia, la nostra bellissima città, unica al mondo, e di cui l’UNESCO raccomanda l’inserimento nella lista dei patrimoni in pericolo.

La raccomandazione si basa sul fatto che il turismo sarebbe potenziale fonte di danni irreversibili ed ovviamente chiama in causa situazioni analoghe per altrettanti patrimoni come il Duomo di Milano, gli Uffizi di Firenze, il Colosseo di Roma. Tornando a Venezia c’è da dire che l’incompatibilità con il turismo è stata denunciata in tempi meno sospetti fra il 18mo e 19mo secolo addirittura e più di recente da parte di Tiziano Terzani, famoso cronista dei nostri tempi ed uno dei più illustri descrittori di viaggi ed opportunità culturali, con un paragone con Disneyland (Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, 1995).

La raccomandazione deve fare riflettere perchè la lista dei patrimoni in pericolo riguarda Beni collocati in aree geografiche di Paesi poveri o perturbati da guerre e contrasti sociali e suona come un richiamo alle nostre autorità responsabili come incapaci di provvedere alla messa in sicurezza di Venezia trovando attraverso politiche culturali equilibrate e tecnologie avanzate una giusta risposta alla domanda posta all’inizio. Le navi da crociera che entrano nel bacino di San Marco aveva spinto ad analoga richiesta già 2 anni fa, poi rientrata. Anche la raccomandazione reiterata trova opposizione da parte delle autorità veneziane che accusano l’UNESCO di essere capace solo di raccomandare senza mettere a disposizione fondi e risorse, come dimostra il recente restauro delle 7 sinagoghe del Ghetto Nuovo di Venezia, finanziato esclusivamente con 2,5 Ml messi a disposizione da Ministero dei Beni Culturali Italiano all’interno di una legge che prevede la creazione del Museo della Shoah a Roma ed il restyling della Sinagoga di Milano. Da parte dei veneziani si osserva che fermare il turismo per un Paese come il nostro vuol dire incidere negativamente su una componente del PIL valutabile fra ritorni diretti ed indiretti intorno al 20%. Circa poi le ragioni dei rischi che Venezia corre, da parte degli amministratori e politici veneziani, ma anche di altri, si osserva giustamente che i cambiamenti climatici non possono di certo essere collegati solo al turismo e che sviluppo urbano senza valutazione di impatto ambientale, gestione e smaltimento dei rifiuti, crescita incontrollata delle imbarcazioni a motore di certo giocano ruoli non secondari.

Gli strumenti di difesa possono e devono quindi essere altri con una serie di provvedimenti che regolano la fruizione della cittá, che razionalizzano la mobilità in laguna rendendola sostenibile e sociale, che impediscono l’ingresso in laguna delle navi da diporto, che regolano la messa a disposizione dei servizi, a partire dalla gestione dei rifiuti.

Un parallelo estivo fra uomini e batteri.

5 agosto, 2023 - 08:26

Mauro Icardi

Il carico del fango, o fattore di carico organico, è un parametro utilizzato nel dimensionamento e nella conduzione degli impianti depurazione, e si definisce come la quantità di sostanza organica biodegradabile giornalmente disponibile per quantità unitaria di biomassa.

La formula che lo definisce è la seguente:  Cf= Q*S0/V*x.

Dove Q è la portata in m3 giorno, S0 la concentrazione di BOD espressa in Kg/m3, V il volume della vasca di ossidazione, x la concentrazione di biomassa in ossidazione espressa anch’essa in Kg/m3.

In alcuni testi di depurazione di provenienza anglosassone (ricordiamoci che gli impianti di depurazione a schema classico sono stati brevettati in Inghilterra) questo parametro viene definito come F/M ovvero food to microrganism.

Le riflessioni che ho sempre fatto su questo parametro tecnico erano sostanzialmente di due tipi.

Una prettamente tecnica. Per avere una depurazione efficace occorreva fornire alla biomassa un carico del fango adatto alle condizioni e soprattutto alla disponibilità di sostanza organica valutata come BOD che stava entrando in impianto. Se la biomassa aveva troppo o poco cibo, ovvero carico del fango troppo alto o troppo basso si verificano problemi sulla resa depurativa. Anche batteri e protozoi necessitavano di una dieta bilanciata, per così dire.

Ma immediatamente dopo le mie riflessioni andavano in un’altra direzione, immaginando il nostro pianeta come un insieme di tanti impianti di depurazione, quanti sono gli stati del mondo. E qui nascevano le contraddizioni. Perché ad esempio gli USA sono paragonabili ad un impianto di depurazione con carico esageratamente elevato, mentre Etiopia e Sud Sudan hanno al contrario valori decisamente troppo bassi.

Non solo di cibo, ma di acqua, di materiali, di qualità della vita.

Ho utilizzato questo paragone in diverse occasioni, quando sono stato invitato a parlare di acqua, ma più in generale di problemi ambientali. Devo dire che l’artificio ha sempre funzionato abbastanza bene, catturando l’attenzione di chi mi ascoltava.

Anche la curva di crescita batterica mi è servita per cercare di fare capire alcuni concetti che da sempre mi stanno a cuore.

Questa rappresentazione della crescita di una comunità di batteri o microrganismi, espressa in scala semi-logaritmica, si trova nei testi di biologia, ma anche in quelli di ingegneria sanitaria.

La trovavo utile come termine di paragone soprattutto quando discutevo con i cosiddetti “crescitisti”, quelle persone che hanno una mentalità che ricorda i pionieri del west, ma anche i nostri antenati del Pleistocene, che molto probabilmente hanno contribuito con molto entusiasmo all’estinzione della megafauna. O dei coloni che alle Mauritius si ingozzarono di carne di Dodo, uccello già di suo sfavorito per l’incapacità di volare e per la lentezza nei movimenti.

Scrivo queste riflessioni estive in libertà, come naturale reazione ai commenti che sento per strada o che leggo sui social. Quasi tutti permeati dall’idea che l’uomo sia una sorta di sovrano assoluto del pianeta, e incapace di concepire l’idea di darsi un limite, di capire che fa parte di un ecosistema, e che avrebbe dovuto da tempo rispettare l’unico pianeta di cui dispone, invece di saccheggiarlo e sfruttarlo all’inverosimile.

Ci sono molti segnali che ci indicano che potrebbe essere in vista un redde-rationem planetario. Mi sembra di intuire che molte persone inizino a capire, ma che non riescano ancora a prenderne pienamente coscienza. Posso anche parzialmente comprenderlo, è difficile un cambiamento di abitudini, che giocoforza dovrà essere piuttosto drastico. Ma che ritengo ineludibile. Sembrano riflessioni strane, forse anche azzardate, ma sono una sorta di filo rosso tra la mia esperienza di lavoro, e la mia formazione personale.

“Non mi considero in alcun modo migliore di ogni altro essere umano ma ho vissuto per vent’anni con questi modelli globali, e riesco a vedere, a capire istintivamente le conseguenze globali delle mie azioni personali. E conosco il tipo di mondo in cui voglio vivere. Non voglio vivere in un mondo che collassa, non voglio vivere in un mondo che diventa sempre più grigio in cui non si riesca a mantenere un livello di vita decente. Voglio vivere in un modo sostenibile dove non ci siano povertà, fame e uso irrazionale delle risorse.”

Donella Meadows 1992

Piani vecchi e nuovi.

2 agosto, 2023 - 10:23

Vincenzo Balzani, Professore Emerito UniBo

Questo testo è apparso su l’Avvenire di Dom 30/07/2023

Enrico Mattei è stato un grande imprenditore.

Nominato liquidatore dell’Agip nel 1945, riorganizzò l’azienda fondando nel 1953 l’Ente azionale Idrocarburi (Eni). Il nostro Paese deve alle iniziative di Mattei la grande disponibilità di energia che ha sostenuto lo sviluppo economico per molti decenni.

I recenti accordi del Governo e di Eni con nazioni africane per ottenere gas al fine di far fronte alla diminuzione delle forniture dalla Russia sono stati definiti «Nuovo Piano Mattei». Oggi, però lo scenario energetico è profondamente cambiato, perché sappiamo che l’uso dei combustibili fossili genera inquinamento e, ancor peggio, il cambiamento climatico. Sappiamo anche che se vogliamo controllare il cambiamento climatico è necessario e urgente portare a termine la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Come ha detto il segretario dell’Onu Guterrez «investire nei fossili, oggi, è una follia economica e morale».

Nell’ Enciclica « Laudato si» (maggio 2015) Papa Francesco ha scritto: «I combustibili fossili devono essere sostituiti senza indugio, ma la politica e l’industria rispondono con lentezza, lontane dall’essere all’altezza delle sfide». Pochi mesi dopo, alla Conferenza di Parigi, il cambiamento climatico è stato definito il problema più grave per l’umanità.

Nella stessa conferenza si raggiunse, faticosamente, un accordo di principio sulla necessità di porre fine all’uso dei combustibili fossili entro il 2050.

A questo accordo e ai successi raggiunti fra i Paesi della Comunità europea si stanno opponendo, in vario modo, le compagnie petrolifere, giganti economici privati o a partecipazione statale. Ancor oggi, a dispetto di molte dichiarazioni e marginali attività nelle energie rinnovabili, queste compagnie, come la nostra Eni operano con grande impegno non solo nel commercio, ma anche nella ricerca di ulteriori giacimenti di combustibili fossili, nonostante gli ammonimenti degli scienziati dell’Intergovernmental Panel On Climate Change (Ipcc) e del segretario dell’Onu: «Il nostro pianeta si sta avvicinando rapidamente a dei punti di non ritorno che renderanno la catastrofe climatica irreversibile. Stiamo procedendo con il piede sull acceleratore verso la catastrofe».

Certo, non è colpa dell’attuale Governo se lo sviluppo delle energie rinnovabili, che ci permetterebbe di raggiungere l’indipendenza energetica, è andato e va avanti troppo lentamente. Il Governo, però, deve rendersi conto che risolvere il problema energetico con un «Nuovo Piano Mattei» guidato da Eni è assurdo, perché oggi non dobbiamo incrementare, ma ridurre drasticamente l’uso dei combustibili fossili e sviluppare le energie rinnovabili.

Ma come fa ad essere rispettoso dell’ambiente un piano che propone di espandere l’uso dei combustibili fossili? Un ossimoro!

Ricercare, estrarre e usare i combustibili fossili delle nazioni africane oggi è un grave errore.

Lo pagheremo a caro prezzo noi, perché in Italia rallenta lo sviluppo delle energie rinnovabili e ci lega a nuove dipendenze economiche e politiche; ma, ancor più, lo pagheranno i Paesi africani perché il nostro governo, così facendo, spinge questi Paesi a investire nelle tecnologie e nelle infrastrutture dei combustibili fossili, invece di aiutarli a raggiungere l’indipendenza energetica sfruttando l’energia del Sole che hanno in abbondanza.

L’invenzione dell’acciaio “senza macchia”.

30 luglio, 2023 - 09:53

Claudio Della Volpe

L’uso del ferro fa parte della preistoria umana; ne abbiamo parlato altrove (vedi anche qui e qui).

La situazione è diversa per una sua lega basilare, l’acciaio, che ha una storia molto più complessa.

A causa del metodo con cui i fabbri del passato convertivano il minerale di ferro in un materiale utilizzabile, il ferro assorbiva una piccola quantità di carbonio. La quantità assorbita era di circa lo 0,05% di carbonio, e in effetti aiutava a mantenere il metallo malleabile mentre era caldo, e gli dava una maggiore resilienza dopo essere stato modellato. Il ferro battuto, è stato uno dei metalli più utilizzati per un periodo compreso tra 3000 e 3500 anni, fino alla comparsa della ghisa.

La ghisa poteva essere prodotta solo a temperatura elevata, i cui livelli non potevano essere raggiunti nella fucina di un fabbro, quindi doveva essere realizzata in un altoforno, il che avvenne tra il 12 ° e il 15 ° secolo (durante l’oscuro medioevo dunque). Il calore di un altoforno causa effettivamente la fusione del ferro, piuttosto che renderlo morbido e poroso, il che a sua volta gli consente di assorbire livelli molto maggiori di carbonio. I livelli di carbonio nella ghisa potevano raggiungere ovunque dal 2% al 4,5%, e una volta indurito era molto duro, ma d’altra parte era anche relativamente fragile e poteva essere incrinato o addirittura frantumato.

L’acciaio è essenzialmente un equilibrio tra i due tipi di ferro. Viene prodotto in un altoforno, come la ghisa, ma viene lavorato per ridurre il livello di carbonio tra lo 0,2 e l’1,5%. Ossia l’acciaio beneficia della durezza della ghisa senza soffrire della sua fragilità. A causa di tutte le sue qualità, oltre alle difficoltà della sua fabbricazione, l’acciaio era inizialmente molto caro da produrre e poteva essere fatto solo in piccole quantità, e questo è stato il caso fino al 19 ° secolo.

Abbiamo già raccontato questa storia. Nonostante le numerose complessità della sua fabbricazione, ci sono stati casi di acciaio prodotto accidentalmente nel corso della storia. Uno di questi esempi potrebbe essere quello che è diventato noto come Damasco, Saracen o Wootz Steel, che è stato generalmente utilizzato nello sviluppo di spade e coltelli. L’acciaio Wootz veniva utilizzato in India all’inizio del 300 a.C. e altrove, forse alla fine del 1700 d.C., e le armi realizzate con il materiale erano caratterizzate da alti livelli di durata e resistenza, nonché da un’estrema affilatura, che si diceva fosse in grado di tagliare le spade di ferro standard, oltre a tagliare un capello in due se dovesse cadere attraverso la lama, anche se questa era probabilmente un’esagerazione.

Ne abbiamo parlato per esempio qui.

In questo post parleremo dell’acciaio cosiddetto inossidabile, una lega di ferro e cromo (ma anche di altri componenti fra cui il nickel) che ha proprietà veramente utili ed interessanti, specie in una civiltà come la nostra che ha preso coscienza della importanza del riciclo, ma anche della durata degli oggetti e dei materiali.

Si tratta di una invenzione che non dobbiamo ad uno scienziato di mestiere ma ad un operaio che studiò il problema; Harry Brearley, nato nel 1871 a Sheffield in una famiglia operaia; Harry studiò fino a 12 anni e poi iniziò a lavorare in fonderia dove già lavorava il padre prima di lui. Entrò come assistente nel laboratorio di analisi della sua fabbrica. E poi studiò sia privatamente che in una scuola regolare specializzandosi nei metodi di produzione ed analisi dell’acciaio. A trent’anni era conosciuto come una persona molto esperta nei problemi di produzione dell’acciaio.

Quando nel 1908 le due principali fabbriche di acciaio di Sheffield si accordarono nel fondare un laboratorio per lo studio e la ricerca sui temi dell’acciaio (Brown Firth Laboratories) ad Harry fu affidato il compito di studiare una nuova lega che resistesse alla corrosione nelle canne dei fucili; le canne a causa delle condizioni di temperature e di sollecitazione andavano incontro a seri problemi di corrosione ed erosione. Harry iniziò un ampio lavoro su base empirica e notò in uno dei suoi campioni l’assenza di corrosione dopo essere stato esposto ad acqua ed aria.

 Questo lo portò a produrre per la prima volta nel 1913 un nuovo materiale che egli denominò “rustless steel” acciaio inossidabile. Si trattava di un campione cui era stato aggiunto del cromo. Ma il nome con cui è conosciuto nei paesi anglosassoni è stainless steel, ossia acciaio senza macchia e quel nome fu suggerito da un costruttore di coltelli, Ernest Stuart della R.F. Moseley’s, una fabbrica di coltelleria. La ricerca, interrotta a causa della guerra, fu ripresa nel 1920, ma sotto la direzione di un ‘altra persona, W. H. Hatfield. Al quale è attribuito lo sviluppo nel 1924, della tipologia di acciaio inossidabile più comune il 18/8 in cui oltre al cromo è presente una percentuale di Nickel

Brearley lasciò il laboratorio per disaccordi sul brevetto, ma non abbandonò il settore  ed entrò in una altra azienda la Brown Bayley’s Steel Works, dove ebbe modo di estendere il campo di applicazione del nuovo acciaio non solo alle applicazioni ad alta temperatura ma anche a quelle più comuni, oggetti per l’uso di massa come le posate e la coltelleria di casa o anche oggetti legati alla produzione industriale. Brealey morì nel 1948, ma fondò prima di morire una fondazione, la Fresh Gate foundation (che ancora esiste) che aveva lo scopo di dare nuove opportunità a chi come lui era nato senza la possibilità di studiare.

Alcuni nuovi settori erano particolarmente indicati per il nuovo acciaio; tra gli anni 1919 e 1923, l’uso dell’acciaio inossidabile fu adattato alla produzione di bisturi chirurgici, strumenti e posate a Sheffield. Nei primi anni 1920, furono testate una varietà di combinazioni di cromo e nichel. Nel 1925, un serbatoio in acciaio inossidabile fu utilizzato per immagazzinare l’acido nitrico, stabilendo così il fatto della resistenza alla corrosione di questo metallo unico. Nel 1926 furono eseguiti i primi apparati chirurgici in acciaio inossidabile. L’aspetto igienico dell’acciaio inossidabile fu definitivamente dimostrato nel 1928 quando il primo recipiente di fermentazione in acciaio inossidabile fu utilizzato per produrre birra.

Da allora l’industria alimentare e delle bevande ha ampiamente utilizzato questo metallo per le sue proprietà igieniche.

Nel 1930, il primo treno in acciaio inossidabile fu costruito negli Stati Uniti. E l’anno dopo il primo aereo in acciaio inossidabile. Nel 1935, i lavelli da cucina in acciaio inossidabile erano già ampiamente utilizzati.

Ma l’acciaio inossidabile entrò di forza anche in altri insospettabili settori. L’acciaio inossidabile tipo 430 (lega di cromo ferritico) fu utilizzato per realizzare un filo di 0.1 mm di diametro per una macchina di registrazione vocale. Nel 1954 fu prodotta la prima telecamera subacquea in acciaio inossidabile. Nel 1966 fu completata in Francia la prima centrale mareomotrice con pale di turbina in acciaio inossidabile. Nel 1980, l’acciaio inossidabile è stato utilizzato per costruire la barriera di inondazione mobile più lunga del mondo, sul Tamigi.

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 La barriera sul Tamigi contro le inondazioni.

La produzione globale di acciaio inossidabile ha raggiunto i 31 milioni di ton nel 2010 e i 52 nel 2019, entrando sempre più nella nostra vita quotidiana. Nel 2010 la Cina, primo produttore mondiale di acciaio e di acciaio inossidabile, ha prodotto circa 11 milioni di lavatrici con tamburi in acciaio inossidabile.

Ma perché l’acciaio inossidabile è tale?

Una spiegazione semplice è la seguente. Nichel, molibdeno, niobio e cromo migliorano la resistenza alla corrosione dell’acciaio inossidabile. È l’aggiunta di un minimo del 12% di cromo all’acciaio che lo rende resistente alla ruggine. Il cromo nell’acciaio si combina con l’ossigeno nell’atmosfera per formare uno strato sottile e invisibile di ossido contenente cromo, chiamato film passivo. Le dimensioni degli atomi di cromo e dei loro ossidi sono simili, quindi si impacchettano ordinatamente insieme sulla superficie del metallo, formando uno strato stabile spesso solo pochi atomi. Se il metallo viene tagliato o graffiato e il film passivo viene interrotto, si formerà rapidamente più ossido e recupererà la superficie esposta, proteggendola dalla corrosione ossidativa. Il ferro, d’altra parte, si arrugginisce rapidamente perché il ferro atomico è molto più piccolo del suo ossido, quindi l’ossido forma uno strato sciolto piuttosto che compatto e si sfalda. Il film passivo richiede ossigeno per autoripararsi, quindi gli acciai inossidabili hanno una scarsa resistenza alla corrosione in ambienti a basso contenuto di ossigeno e scarsa circolazione. Un caso importante è nell’acqua di mare, i cloruri del sale attaccheranno e distruggeranno il film passivo più rapidamente di quanto possa essere riparato in un ambiente a basso contenuto di ossigeno.

L’ultima nota di questo post è il fatto che l’acciaio inossidabile è uno dei materiali più riciclati al mondo, a dimostrazione che la Chimica ha il riciclo dei materiali nel proprio DNA.

Vedi anche:

https://en.wikipedia.org/wiki/Harry_Brearley

https://www.austenknapman.co.uk/blog/history-of-metal/a-huge-accident-the-story-of-stainless-steel-discovery/

https://www.azom.com/article.aspx?ArticleID=8307

New study shows life cycle of stainless steels

Ripristinare la Natura.

27 luglio, 2023 - 09:15

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Il Parlamento Europeo ha approvato la legge per il RIPRISTINO DELLA NATURA secondo cui i Paesi Europei entro il 2030 sono impegnati ad iniziative che restituiscano alla natura (aree terrestri e marine) il 20% della superficie che le è stata sottratta a scopi meramente speculativi e produttivi. Questo vorrà dire aumentare il verde e le capacità di restaurazione delle ferite inferte dall’uomo alla natura, potere fare crescere il patrimonio arboreo indispensabile strumento contro l’effetto serra ed i cambiamenti climatici, ridurre l’inquinamento agricolo. Queste sono le ragioni che devono spingere all’attuazione convinta di questo impegno che però merita qualche riflessione.

Si ripropone quanto avvenuto per l’inquinamento: dimenticato in periodi di boom, poi drammaticamente riconsiderato ed oggi osteggiato e limitato per i Paesi in via di sviluppo che stanno ripercorrendo quell’iter che i Paesi industrializzati hanno ormai compiuto. Se oggi possiamo permetterci una direttiva come quella di cui sopra è perché abbiamo vinto la fame ed è perché l’agricoltura ha trovato alternative, anche economiche, per lo sviluppo, in un delicato equilibrio con l’industria ed il terzo settore. Con riferimento alla fame del mondo scelte del tipo di quella Europea sono improponibili ad esempio per molti Paesi Africani: le aree coltivabili sono quelle che sono, per ridurre la fame, a meno che non ci si orienti sugli OGM, ma il discorso si complica, possiamo solo renderle più produttive, contrastarne le malattie o aumentarne la superficie rendendo così incompatibile per la vita stessa dei cittadini di questi Paesi tale linea. Questo significa che l’Europa, da apprezzare per la sua scelta coraggiosa, non può dissociare tale scelta da almeno due altri impegni.

Sostegno tecnologico alle economie più povere consentendo loro di sviluppare una agricoltura 4.0 che possa coesistere con la protezione dell’ambiente ed il rispetto della natura, al tempo stesso fornendo le risorse agroalimentari per contrastare la fame nel mondo.

Sostegni alla Ricerca Scientifica per sviluppare, trasferire e condividere tecnologie innovative con le quali le produzioni agricole, non solo procedano senza danneggiare la natura e l’ambiente, ma anzi con ragionati cicli di insediamenti di colture diverse, possano contribuire ad un miglioramento della qualità ambientale e della produttività del suolo

Per una breve illustrazione tecnica della legge si veda:

https://www.consilium.europa.eu/it/policies/nature-restoration/

https://www.wired.it/article/natura-legge-ripristino-europa/

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