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BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'

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Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Aggiornato: 10 ore 33 min fa

La cottura periodica: l’uovo perfetto!

6 luglio, 2025 - 09:18

di Nunzia Iaccarino*

Chi non ha mai provato a cuocere un uovo alla perfezione? Croce e delizia dei cuochi, amatoriali e professionisti, le uova sono ingredienti semplici solo in apparenza. C’è chi le preferisce alla coque, chi sode, chi ama la consistenza “cremosa” del tuorlo tipica della cottura a bassa temperatura. Ma c’è un problema cruciale che la scienza conosce bene: l’albume e il tuorlo richiedono temperature diverse per cuocere in modo ottimale. Fino ad oggi, questa differenza obbligava a scendere a compromessi sul risultato finale. Un recente studio condotto da un team di ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II guidati da Ernesto Di Maio con Emilia Di Lorenzo del Dipartimento di Ingegneria Chimica, dei Materiali e della Produzione Industriale, Antonio Randazzo del Dipartimento di Farmacia e Pellegrino Musto dell’Istituto di Chimica e Tecnologia dei Polimeri (ICTP) CNR

 ha però dimostrato che, con un approccio ingegneristico e una buona dose di modellazione matematica, è possibile cuocere l’uovo… in modo perfetto.

Cottura Periodica: l’uovo a due temperature senza romperlo

Il lavoro pubblicato su Communications Engineering [1], presenta una tecnica innovativa denominata Cottura Periodica. Il principio è tanto semplice quanto ingegnoso: cuocere l’uovo alternando brevi immersioni di 2 minuti in acqua calda (100 °C) e 2 minuti in acqua fredda (30 °C), per un totale di otto cicli, equivalenti a 32 minuti complessivi. Questo trattamento termico ciclico genera all’interno dell’uovo un profilo di temperatura controllato che consente di raggiungere circa 85 °C nell’albume, favorendone la coagulazione, e 65–67 °C nel tuorlo, la temperatura ideale per mantenerne la cremosità, senza la necessità di separare le due componenti.

L’idea prende ispirazione da processi di lavorazione dei materiali, dove condizioni variabili nel tempo vengono impiegate per modulare proprietà come la densità o la morfologia. Applicando questo concetto alla cucina, è stato simulato il trasferimento di calore nell’uovo mediante un programma di modellazione e simulazione matematica, con ottimi risultati: il profilo termico risultante è altamente controllato e predicibile.

La prova del cuoco… e dello spettrometro

Per validare la teoria, le uova sono state cucinate con quattro diverse tecniche: bollitura classica (12 minuti a 100 °C), cottura soft (6 minuti a 100 °C), sous vide (60 minuti a 65 °C) e cottura periodica (Figura 1).

Figura 1. Diverse modalità di cottura dell’uovo esplorate Copyright Communications Engineering.

I risultati sono stati analizzati con metodi avanzati: FT-IR per valutare il grado di denaturazione proteica, analisi sensoriale e della consistenza, 1H-NMR e spettrometria di massa ad alta risoluzione per il profilo nutrizionale.

I risultati permettono di stabilire che con la cottura periodica si ottiene un albume ben cotto e un tuorlo cremoso, bilanciando consistenza, sapore e valore nutrizionale. La cottura periodica ha preservato meglio alcune molecole bioattive, in particolare i polifenoli e gli amminoacidi essenziali (come la lisina e e gli altri amminoacidi a catena ramificata), che in altre modalità risultano degradati.

Dalla cucina al laboratorio… e ritorno

Oltre al fascino di poter cuocere un uovo “scientificamente perfetto”, questo studio mette in luce l’importanza della chimica e dell’ingegneria nei processi alimentari. La ricerca suggerisce che un controllo più fine delle condizioni termiche può avere ricadute non solo sul gusto, ma anche sulla qualità nutrizionale e la sicurezza alimentare. E non solo: la periodicità termica è un approccio applicabile anche in ambiti diversi dalla cucina, come la cristallizzazione, la polimerizzazione e la lavorazione di materiali.

In conclusione, questo lavoro, è un esempio brillante di come concetti avanzati possano trasformarsi in soluzioni pratiche per la risoluzione di problemi quotidiani. È anche un invito a guardare alle nostre cucine come laboratori chimici, dove ogni gesto, anche quello di bollire un uovo, può nascondere affascinanti complessità.

[1] Emilia Di Lorenzo, Francesca Romano, Lidia Ciriaco, Nunzia Iaccarino, Luana Izzo, Antonio Randazzo, Pellegrino Musto, Ernesto Di Maio Periodic cooking of eggs. Commun Eng 4, 5 (2025).https://www.nature.com/articles/s44172-024-00334-w

*Nunzia Iaccarino, laurea e PhD CTF a Napoli, dal 2021 è ricercatrice di chimica analitica presso il dipartimento di Farmacia dell’Università di Napoli. Si occupa di  metabolomica mediante spettroscopia NMR e spettrometria massa.

L’allotropia dell’azoto come accumulatore di energia

25 giugno, 2025 - 18:57

Diego Tesauro

L’allotropia (dal greco άλλος altro, e τρόπος modo) è una caratteristica che indica la proprietà degli elementi chimici di esistere in diverse forme per caratteristiche fisiche (colore, sistema di cristallizzazione) o anche chimiche (reattività) causate specificamente dalla struttura del legame chimico esistente fra gli atomi dell’elemento. Il termine è stato utilizzato per la prima volta dal chimico svedese Jöns Jacob Berzelius. La rilevanza di questa proprietà, forse unico caso, ha permesso di estendere il termine dalla chimica alla linguistica, per cui Il termine allotropi indica due o più parole che, pur essendo diverse nel significato sul piano formale e semantico, hanno il medesimo etimo.

Quasi tutti gli elementi chimici presentano diverse forme allotropiche. Quelle da tutti conosciute sono le due forme allotropiche del carbonio sulla Terra a cui si affiancano quelle dello zolfo.  Altri elementi, non presentandosi allo stato nativo in natura, possono generare allotropie in funzione delle condizioni di pressione e temperatura nelle quali vengono ottenuti.

A parità di valenza, gli elementi, appartenenti allo stesso gruppo della tavola periodica, tendono ad avere la stessa forma allotropica come nel caso del IV gruppo C, Si, Ge e Sn hanno in comune la geometria tetraedrica a forma cubica. Questo non si verifica in toto nel V gruppo in quanto l’azoto si distacca dagli altri elementi del gruppo. L’azoto rispetto al carbonio, ha un elettrone di valenza in più. Ciò significa che l’azoto elementare non può formare quattro legami tetraedrici come quelli del diamante, in quanto per la teoria del legame di valenza (VBT) ha solo tre orbitali occupati da un solo elettrone e un quarto con una coppia solitaria, pertanto di non legame. Quindi l’azoto forma forti legami π, ma legami singoli relativamente deboli a causa della sfavorevole repulsione fra le coppie solitarie. Questa caratteristica fa sì che l’azoto sia l’unico elemento del gruppo V in grado di assumere forma biatomica. Tutti gli altri elementi del gruppo V (P, As, Sb e Bi) hanno una scarsa tendenza a formare legame multipli forti a causa della scarsa sovrapposizione degli orbitali p (notoriamente di dimensioni maggiori a partire dal 3° periodo) coinvolti nella formazione degli orbitali π. Pertanto dal fosforo in poi sono favorite sempre strutture estese con legami singoli, varianti della struttura cubica semplice per cui si formano in diverse forme allotropiche simili fra loro. La forza del triplo legame della molecola di azoto fa sì che altre forme allotropiche siano difficili da ottenere, ma sarebbero di grande interesse riprodurle come molecole di alta densità energetica.

I materiali ad alta densità energetica (HEDM) sono una classe di materiali che ha trovato enormi applicazioni nell’accumulo di energia, negli esplosivi e nei propellenti. L’efficienza di questi materiali è strettamente correlata ad alcuni fattori importanti come l’elevata densità, l’elevata energia di dissociazione dei legami. La quantità di energia rilasciata dipende dal calore di formazione e dal grado endotermico dell’HEDM. Tuttavia, esiste sempre un compromesso tra la densità energetica e la stabilità del composto, poiché quest’ultima generalmente diminuisce con il grado endotermico, che misura l’assorbimento di energia termica dell’HEDM a determinate temperature. La ricerca di nuovi HEDM ha ricevuto notevole attenzione per anni a causa delle potenziali applicazioni nell’ingegneria della potenza a impulsi, nell’elettrofisica ad alta tensione e ad alta potenza, nei materiali di saldatura e nella protezione dagli urti dei veicoli spaziali.

Gli allotropi dell’azoto molecolare, oltre la molecola biatomica N2, sono promettenti per lo sviluppo di materiali ad alta densità energetica per lo stoccaggio di energia pulita grazie al loro elevato contenuto energetico, maggiore rispetto all’idrogeno, all’ammoniaca o all’idrazina, di uso comune, e perché rilasciano solo azoto a seguito della decomposizione e pertanto dal punto di vista ambientale compatibili. Tuttavia, sono considerati estremamente instabili, specialmente quando hanno cariche ed un numero pari di elettroni. Di conseguenza, fino a quest’anno bisogna segnalare solo due esempi. Il radicale azido (•N3) è stato identificato in fase gassosa attraverso spettroscopia rotazionale nel 1956. Nel 2002, la molecola N4 è stata rilevata mediante spettrometria di massa per neutralizzazione-reionizzazione in fase gassosa; ma la sua struttura non è stata dimostrata. L’intermedio di una specie N6 è stato invece suggerito nel 1970 nel decadimento dei radicali azidi in soluzione acquosa ma non sono state fornite prove spettroscopiche definitive (Figura 1a).

Quindi restava in piedi una sostanziale sfida sintetica non essendo stato isolato nessun allotropo molecolare neutro dell’azoto. La preparazione di un allotropo molecolare metastabile dell’azoto, oltre la molecola biatomica N2, è quindi di notevole interesse.

Recentemente la sfida è stata raccolta [1] ed è stato preparato a temperatura ambiente del N6 molecolare (esazoto) attraverso la reazione in fase gassosa di cloro o bromo con azide d’argento, seguita dall’intrappolamento in matrici di argon a 10 K [Figura b]. L’N6 puro è stato ottenuto come un film alla temperatura dell’azoto liquido (77 K), dimostrando ulteriormente la sua stabilità. La spettroscopia infrarossa ed ultravioletta–visibile (UV-Vis), la marcatura con isotopi di 15N e i calcoli ab initio supportano l’effettivo ottenimento di questo allotropo.

Figura a Le tappe dello studio degli allotropi di azoto  b Le reazioni di sintesi dell’allotropo N6. Copyright Nature

Ora sforzi futuri sugli allotropi dell’azoto neutro dovrebbero concentrarsi sul superamento delle sfide legate alla sintesi, sul miglioramento della stabilità termica, sulla possibilità di una caratterizzazione strutturale affidabile e sul raggiungimento di un rilascio di energia più completo, tutti elementi essenziali per le applicazioni pratiche. Inoltre in futuro si spera di ottenere l’allotropo dell’azoto neutro N10.

Anche se la scoperta è rilevante c’è comunque scetticismo per le applicazioni di accumulo di energia. Inoltre pur essendo N6 stabile nell’azoto liquido per lunghi periodi, come può rilasciare energia in modo controllato?

[1] W. Qian et al. Nature 2025, 642,  356–360.  https://doi.org/10.1038/s41586-025-09032-9.

Pompieri e PFAS

19 giugno, 2025 - 08:49

Luigi Campanella, già Presidente SCI

La divisa di un vigile del fuoco è costituita da diversi strati per difendere il suo corpo dal fuoco contro cui dovrà combattere, dalle sostanze nocive con cui venissero a contatto, anche dai fumi. Di fatto resta esposto solo il viso che viene coperto da maschere filtranti solo se l’intervento lo richiede. Per essere efficaci e svolgere il loro ruolo protettivo, i completi anti-fiamma devono essere costruiti con materiali resistenti al fuoco, e quelli in dotazione al Corpo nazionale dei vigili del fuoco (C.N.VV.F) contengono il Politetrafluoroetilene (Ptfe), più conosciuto come Teflon, e altri Pfas, le sostanze perfluoralchiliche note soprattutto per essere responsabili di una delle più grandi contaminazioni ambientali italiane, avvenuta in provincia di Vicenza a opera dell’azienda Miteni e di patologie tumorali diverse. Negli Stati Uniti è stata dimostrata la correlazione tra l’esposizione ai Pfas tramite i Dpi e alcune malattie che colpiscono i pompieri, in Italia un’indagine epidemiologica

IrpiMedia ha fatto analizzare un giaccone anti-fiamma di un pompiere italiano e la concentrazione di Pfas rilevata induce a considerare opportune indagini più approfondite su tale indumento.

Il Teflon, fino a qualche anno fa conteneva Pfoa, un Pfas considerato cancerogeno e vietato dal 2013 a causa della sua pericolosità per l’uomo. È noto soprattutto per essere contenuto nelle padelle antiaderenti; si tratta di un composto che non fa propagare le fiamme, permette ai tessuti di resistere a temperature elevate, è idro e olio repellente, quindi ideale per le tute da intervento dei vigili del fuoco. Il prolungato tempo di indossamento delle tute antifiamma ed il calore dovuto alle alte temperature durante gli incendi potrebbero però aumentare la capacità del corpo umano di assorbire Pfas. IrpiMedia ha consultato diversi capitolati del Ministero dell’Interno, scoprendo che a partire dal 2010 è specificato che la membrana esterna al giaccone e al pantalone deve essere composta da Politetrafluoroetilene (Ptfe) a struttura microporosa espansa e che sulla parte interna delle cuciture esterne deve essere applicato un nastro Ptfe idoneo ad assicurare una perfetta aderenza». Alcuni pompieri hanno scoperto le loro patologie grazie ai controlli sanitari, emocromo, spirometria, misura della vista, elettrocardiogramma, consulto psicologico a cui devono sottoporsi ogni due anni. IrpiMedia ha inviato una giacca da pompiere italiano negli Stati Uniti al professor Graham Peaslee che per primo aveva studiato la correlazione causa effetto nel caso delle patologie riscontrate nei pompieri e che si era offerto di condurre l’analisi e la misurazione della quantità totale di fluoropolimeri presenti nel giaccone italiano. La sua risposta è stata: “i tessuti costruiti con fluoropolimeri presentano un valore di fluoro totale di circa 50.000 ppm (parti per milione) o superiore, ciò equivale a circa il 5% di fluoro sulla superficie. La barriera anti umidità interna dei dispositivi di protezione è in genere realizzata in Ptfe che, quando viene misurato, restituisce concentrazioni di fluoro totale superiori al 20-30%. I vostri ricambi italiani sembravano avere valori di fluoro totale identici a quelli misurati negli Stati Uniti e in Australia».

Secondo queste dichiarazioni, le tute italiane potrebbero quindi contenere diversi tipi di Pfas, come le tute statunitensi e australiane che, secondo Peaslee, possiedono una quantità di Pfoa pari a 2,18 ng/g. marzo 2024.

A seguito di ciò il Conapo, il sindacato autonomo dei Vigili del Fuoco e l’USB hanno richiesto al Ministro dell’Interno e a quello della Salute, studi sull’incidenza dei Pfas nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e accertamenti sanitari sui vigili esposti a queste sostanze.

Il ministero dell’Interno ha dato la stessa risposta del 2021, ovvero che le analisi da loro visionate, realizzate da un laboratorio accreditato, hanno fornito “valori non significativi dal punto di vista della misura”. Per il Ministero, dunque, le tute utilizzate dai pompieri italiani, non presentano quantità pericolose di Pfas.

https://irpimedia.irpi.eu/tute-pompieri-italiani-pfas-tumori/

https://www.greenpeace.org/italy/storia/27449/pfas-nelle-giacche-e-nel-sangue-dei-vigili-del-fuoco-la-nostra-indagine/

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