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BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'

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Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Aggiornato: 3 giorni 7 ore fa

La scienza della Cacio e Pepe

17 ottobre, 2025 - 11:11

 Ivan Di Terlizzi*

Il lavoro illustrato in questo post da uno degli autori ha vinto il premio IGNobel per la fisica 2025

Pochi piatti rappresentano l’essenza della cucina italiana quanto la Cacio e Pepe. Tre ingredienti, pasta, pecorino e pepe, per una ricetta semplice solo in apparenza. Chiunque abbia provato a prepararla sa che bastano pochi secondi di distrazione e la crema può trasformarsi in un disastro culinario. Da fisici italiani in Germania, io e i miei colleghi abbiamo spesso l’abitudine di cenare insieme durante i freddi weekend invernali, e le chiacchierate a tema scientifico di fronte a un piatto di pasta fumante non mancano mai. Nei nostri menu mancava però sempre un piatto: la Cacio e Pepe. Cucinarla per tante persone era infatti un problema. La gestione del calore diventa infatti progressivamente più difficile man mano che le quantità di pasta aumentano, e sprecare una gran quantità di prezioso pecorino portato dall’italia facendo magari una figuraccia davanti ad amici di varie nazionalità era un rischio che non volevamo correre. È proprio discutendo di queste difficoltà che abbiamo realizzato come la facilità con cui una salsa inizialmente liscia e omogenea si aggruma al variare delle condizioni esterne potesse indicare la presenza di una transizione di fase. Spinti dalla curiosità, abbiamo deciso di costruire un apparato sperimentale che ci permettesse di studiare lo stato della salsa in diverse condizioni fisiche.

Per condurre gli esperimenti abbiamo riprodotto la preparazione della salsa con strumenti da cucina comuni (bilancia, frullatore a immersione, pentolino e termometro digitale), ma con un controllo di temperatura più preciso. Il riscaldamento è stato realizzato con un sistema sous-vide modificato, in cui il pentolino contenente la salsa veniva immerso in acqua a temperatura controllata, sostenuto da una piattaforma di legno su misura che ne impediva il galleggiamento e assicurava un trasferimento di calore uniforme. Per l’analisi visiva della salsa, i campioni venivano disposti in una piastra di Petri su un supporto trasparente realizzato con semplice pellicola da cucina, illuminati dal basso da una lampada da tavolo e fotografati con uno smartphone montato su treppiede. Questo allestimento casalingo ma preciso ci ha permesso di osservare la formazione dei grumi e di costruire un diagramma di fase della Cacio e Pepe.

Da buoni fisici teorici, non potevamo accontentarci di uno studio puramente sperimentale. Durante le nostre discussioni ci siamo resi conto che un modo possibile di interpretare i risultati era quello offerto dalla fisica della separazione di fase, che qui a Dresda è particolarmente popolare. Gli argomenti di ricerca sono ovviamente più “seri”: dalla formazione degli organelli senza membrana nelle cellule alla comparsa delle placche beta-amiloidi nella malattia di Alzheimer. Nel nostro caso, invece, abbiamo a che fare con una miscela a base di pecorino romano che contiene proteine, grassi e sali minerali sospesi in una matrice solida. Quando viene grattugiato e mescolato con acqua, solitamente con l’acqua di cottura della pasta, queste componenti devono riorganizzarsi per formare un’emulsione stabile, cioè un sistema in cui minuscole goccioline di grasso sono disperse in acqua grazie all’azione stabilizzante delle proteine, in particolare le caseine. Tuttavia, se l’acqua è troppo calda, oltre i 65°C, le proteine denaturano e perdono la capacità di stabilizzare la salsa che inevitabilmente si rompe. Poichè il pecorino inizia a fondere intorno ai 55°C, la Cacio e Pepe riesce quindi solo entro una stretta finestra di temperatura compresa tra la fusione del formaggio e la denaturazione delle proteine. In questo equilibrio delicato l’amido gelatinizzato dell’acqua di cottura svolge un ruolo chiave, mantenendo la salsa omogenea e rendendola stabile anche a temperature più alte.

Il sugo cacio e pepe è composto da pecorino, pepe e acqua arricchita di amido. (a) Pasta con emulsione di pecorino e acqua arricchita di amido, condita con pepe nero macinato fresco. (b) Istantanee della miscela che costituisce la base del sugo, ovvero formaggio e acqua con diverse quantità di amido, a diverse temperature. In particolare, confrontiamo l’effetto dell’acqua da sola; dell’acqua di cottura della pasta che trattiene parte dell’amido (ottenuta cuocendo 100 g di pasta in 1 litro d’acqua); e dell’acqua di cottura della pasta “risottata”, ovvero l’acqua di cottura della pasta riscaldata in una padella per far evaporare l’acqua (fino a ridurne il peso totale di tre volte) e concentrare l’amido. All’aumentare della concentrazione di amido, gli aggregati di formaggio diminuiscono di dimensioni e si formano a temperature più elevate. La regione qui denominata “Fase Mozzarella” è caratterizzata da enormi grumi di formaggio simili alla mozzarella sospesi nell’acqua, risultanti da un’estrema aggregazione delle proteine durante il riscaldamento

Per studiare l’effetto dell’amido, nei nostri esperimenti abbiamo utilizzato amido in polvere, gelatinizzato in un pentolino per controllarne al meglio la quantità. In questo modo siamo riusciti a caratterizzare il diagramma di fase temperatura–amido della salsa Cacio e Pepe. Da questo si evince che esiste una quantità critica di amido, circa l’1% in massa rispetto al formaggio, al di sotto della quale, a temperature superiori ai 65 °C, l’aggregazione delle proteine avviene in modo drammatico, formando un unico grande grumo. Abbiamo deciso di chiamare questa condizione la “Mozzarella Phase”, e ci piace scherzare dicendo che questa è l’unica circostanza conosciuta in natura in cui la mozzarella rappresenti un risultato negativo. Al di sopra di questa soglia, i grumi sono molto più piccoli, persistendo fino temperature vicino ai 100 °C. Oltre il 4% di amido la rende la salsa un po’ troppo densa una volta raffreddata. Abbiamo quindi individuato una quantità ottimale tra il 2% e il 3%, che garantisce la minima dimensione dei grumi senza compromettere la consistenza della salsa.

Anche se non era nelle nostre intenzioni iniziali, la tentazione di tradurre queste osservazioni in una ricetta è stata troppo forte. Per due porzioni abbondanti, con circa trecento grammi di pasta e duecento grammi di pecorino, la quantità giusta di amido è di circa cinque grammi. Poiché l’acqua di cottura, anche se concentrata, raramente ne contiene a sufficienza, usiamo amido in polvere gelatinizzato, sciogliendo l’amido di patata o di mais in 50 grammi d’acqua e scaldandolo dolcemente fino a quando la miscela diventa traslucida e viscosa. Una volta ottenuto il gel, lo si può diluire con 100 grammi d’acqua a temperatura ambiente e frullare con il pecorino grattugiato fino a ottenere una crema omogenea, liscia e stabile. Questa stabilizzazione a basse temperature rende la salsa resistente all’aumento di calore.

Non può ovviamente mancare il pepe, possibilmente tostato in padella a partire dai grani e poi pestato al mortaio. Nel frattempo la pasta, cotta in poca acqua salata, va scolata al dente e lasciata riposare per un minuto, così da evitare che il calore eccessivo destabilizzi la salsa. Ricordiamo infatti che i nostri esperimenti sono stati condotti cercando di essere il più adiabatici possibile, per studiare il diagramma di fase in condizioni di equilibrio. Aumentare la temperatura della salsa troppo rapidamente può provocare effetti cinetici che ne destabilizzano la struttura nonostante la presenza dell’amido. La mantecatura deve avvenire a fuoco spento, con la padella non troppo calda, unendo la crema di formaggio e, se serve, poca acqua di cottura per regolare la consistenza. Sebbene non indispensabile per un cuoco esperto, questa ricetta rende senz’altro più semplice l’esecuzione di questo grande classico.

Possiamo però dire con certezza che, grazie ad essa, la Cacio e Pepe è tornata a essere una protagonista dei nostri menu serali tra gruppi numerosi di ricercatori.

In alternativa all’amido, si può usare una piccola quantità di citrato trisodico, un sale alimentare che stabilizza efficacemente le emulsioni a base di formaggio chelando il calcio contenuto nella caseina e impedendo la sua aggregazione. Il diagramma di fase con il citrato mostra nuovamente una regione in cui la “Mozzarella Phase” appare, ma a partire dal 2% in massa di citrato rispetto al formaggio (nel nostro caso circa 4 grammi), ogni traccia di grumi scompare. Questo mostra come l’effetto “chimico” del citrato sia diverso da quello più “fisico” del network di amido, che stabilizza la miscela in modo meccanico, formando una rete che intrappola le goccioline di grasso e proteine limitandone l’aggregazione. Il citrato permette quindi di ottenere una crema perfetta senza traccia di grumi, ma modifica leggermente il sapore del formaggio, probabilmente a cause delle proprietà basiche dello ione citrato, motivo per cui rimane a nostro parere una curiosità più che un ingrediente autentico.

Concludo dicendo che la ricerca scientifica non dovrebbe essere vista come contrapposta alla tradizione e alla spontaneità che rendono cucinare un’attività così ispirante, ma come un modo per capire meglio ciò che mangiamo. Le nonne romane che preparano la Cacio e Pepe perfetta non parlano di separazione di fase o di denaturazione delle proteine, ma hanno imparato empiricamente a controllare temperatura e acqua amidosa. La differenza è che oggi possiamo descrivere quantitativamente quei gesti, e magari usarli per insegnare chimica e fisica in modo più gustoso.

* Ivan Di Terlizzi è ricercatore al Max Planck Institute for the Physics of Complex Systems di Dresda. Si occupa di fisica statistica di non equilibrio e termodinamica stocastica; in biofisica lavora all’intersezione tra fisica dei sistemi complessi e genomica.

https://pubs.aip.org/aip/pof/article/37/4/044122/3345324/Phase-behavior-of-Cacio-e-Pepe-sauce

Gli autori del paper sono tutti fisici che hanno lavorato presso il Max Planck Institute for the Physics of Complex Systems di Dresda, dove si sono conosciuti. Attualmente Ivan Di Terlizzi, Matteo Ciarchi e Vincenzo Maria Schimmenti, tutti biofisici, lavorano ancora a Dresda. Giacomo Bartolucci, biofisico, è all’Università di Barcellona. Daniel Maria Busiello e Davide Revingas, entrambi fisici statistici, sono ricercatori all’Università di Padova. Fabrizio Olmeda, il romano del gruppo, è biofisico all’Istituto di tecnologia austriaco (ISTA) a Vienna. Infine, Alberto Corticelli, fisico della materia condensata, sta intraprendendo un percorso di ricerca all’intersezione tra neuroscienze e meditazione.

Il Nobel per la Chimica 2025 agli architetti del nanomondo

13 ottobre, 2025 - 07:55

Matteo Guidotti

Era da un po’ di tempo che non si avvertiva un’ondata di entusiasmo generalizzato come quella che si è vista in questi ultimi giorni dopo l’annuncio dell’assegnazione del Premio Nobel per la Chimica 2025 a Susumu Kitagawa, Richard Robson e Omar M. Yaghi.

Sono molti infatti gli studiosi che, avendo in vari modi contribuito ad ampliare la conoscenza sui metal–organic frameworks, MOF, negli ultimi 30 anni almeno, sentono questo riconoscimento un po’ più vicino a loro. Nel mondo accademico, della ricerca e dello sviluppo industriale, non pochi chimici, scienziati della materia, ingegneri, fisici e tanti altri hanno progettato, sintetizzato, caratterizzato, modificato, ottimizzato, impiegato, prodotto su larga scala e sfruttato in vari modi i MOF.

Allo stesso tempo, molti colleghi, che negli ultimi anni avevano visto assegnare il massimo riconoscimento per la Chimica ad ambiti tematici più spostati verso le scienze della vita o la medicina, sono ora contenti di ritrovare in questo premio un paradigmatico distillato del loro bel mestiere: scegliere gli elementi più interessanti della tavola periodica, selezionare le molecole organiche più promettenti, assemblarle seguendo le regole della chimica reticolare e un po’ di fiuto del sintetista, per ottenere così eleganti strutture a livello nanometrico da utilizzare nell’immagazzinamento e separazione dei gas, nella catalisi, nella sensoristica o, ancora, nella progettazione di materiali energetici.

Inoltre, anche i giornalisti, che in questi giorni hanno divulgato la notizia, non hanno celato la soddisfazione di aver davvero capito, forse questa volta senza sforzi, quale sia stato l’oggetto del Premio. L’idea infatti del gioco di costruzioni nanoscopico, del “meccano” con stanghette molecolari e con snodi metallici, è di per sé molto mediatica ed è stata colta con immediatezza da tutti i comunicatori, anche quelli che hanno meno dimestichezza con le discipline scientifiche. Ne consegue che anche il grande pubblico dei “non addetti ai lavori” ha potuto cogliere almeno l’essenza del lavoro dei tre scienziati e padroneggiare, una volta tanto, una notizia che altrimenti avrebbe lasciato completamente indifferenti i più.

Va anche detto che la comunità scientifica internazionale dei chimici si attendeva, prima o poi, un Nobel per questo filone di ricerche che ha ampliato e potenziato quella corsa ai solidi sintetici porosi ordinati che aveva visto alla fine degli anni ’40 le prime zeoliti sintetiche, poi i setacci molecolari microporosi e i solidi mesoporosi ordinati tra gli anni ’80 e ’90 e, negli ultimi decenni, le strutture porose avanzate (APF, advanced porous frameworks), che sono, a loro volta, suddivise in amplissime famiglie, come i MOF, premiati lo scorso 8 ottobre, i covalent organic frameworks, COF, i porous organic frameworks POP, i porous organic cages POC o, ancora, gli hydrogen-bonded organic frameworks HOF.

Advanced Porous Frameworks e loro potenzialità applicative nelle separazioni e nelle purificazioni (da DOI:10.1002/adma.201902009)

E’ superfluo ricordare ai lettori di queste pagine (molti dei quali conoscono bene l’ambito di ricerca dei tre vincitori del Nobel) le proprietà dei MOF e di tutte queste strutture porose reticolari.[1] Sono infatti materiali estremamente versatili, le cui applicazioni sono ben di più di quelle ricordate dai mezzi stampa in questi giorni. Anche l’impennata, negli ultimi 25 anni, nel numero di pubblicazioni scientifiche e di brevetti in cui compaia la parola chiave MOF dimostra in modo chiaro e obiettivo un interesse reale che va ben oltre la “moda del momento“.

Numero di articoli scientifici per anno contenenti le parole chiave “metal organic framework” e “metal organic frameworks” nel periodo 2000-2024 (fonte Scopus)

Numero di brevetti registrati per anno contenenti la parola chiave “metal organic framework” nel periodo 2000-2025 (elaborazione da dati cas.org)

Giocando sulle permutazioni di forme, topologie, geometrie e composizione chimica, il numero di strutture MOF ottenibile è davvero infinito, con altrettanto modulabili porosità, aree superficiali e volumi utili interni. Solamente per le applicazioni catalitiche, ad esempio, poter collocare il metallo attivo con determinate caratteristiche chimico-fisiche in prossimità di gruppi funzionali specifici presenti nei segmenti organici del reticolo, ricorda molto ciò che la Natura fa nei sistemi enzimatici, in cui è tutto l’insieme del sistema sito attivo / intorno chimico / confinamento sterico che rende eccezionalmente attivi, selettivi ed efficienti questi catalizzatori naturali.

Ad ogni modo, sebbene alcune applicazioni dei MOF abbiano mostrato di essere arrivate ad una buona maturità tecnologica, alcuni aspetti legati ad un utilizzo su larga scala di questi solidi necessitano di ulteriori studi attenti e approfonditi. Per esempio, per alcune tipologie di strutture MOF, la sintesi solvotermica in autoclave, l’uso di solventi organici e/o di reagenti costosi (leganti funzionalizzati, metalli rari) rendono la produzione su scala industriale non banale. Per ovviare a ciò, si cerca di condurre sintesi in continuo (flow solvothermal synthesis), di utilizzare meno solventi, o più verdi, oppure basse temperature, così da superare il divario ancora spesso esistente tra sistemi dimostrativi di laboratorio e produzione commerciale economicamente sostenibile.

Anche l’impatto tossicologico e ambientale di questi materiali è un aspetto ancora controverso e poco studiato, soprattutto quando gli scopi applicativi prevedono l’uso di grandi quantità di MOF, come per la cattura e l’immagazzinamento di gas o per la decontaminazione di alti volumi di liquidi o di aeriformi. Alcuni MOF contengono metalli ecotossici (Cr, Cu in eccesso) o leganti organici potenzialmente problematici. La loro possibile dispersione o rilascio in ambiente, durante l’uso o a fine vita, necessita valutazioni accurate, proprio perché non è detto che quanto osservato per un sistema di una determinata forma o composizione sia poi estendibile a materiali analoghi.

Quindi, è chiaro come questo premio Nobel non sia affatto un punto di arrivo, ma uno (s)punto di partenza per nuovi avvincenti futuri lavori di chimici e scienziati. Vedremo come la comunità scientifica internazionale risponderà, nei prossimi anni, a questo invito.

[1] Chi volesse approfondire la conoscenza dei MOF può consultare alcune
rassegne alquanto esaurienti in vari ambiti applicativi, (tutte di libero accesso):

DOI:

10.1021/acsomega.2c05310;

10.1016/j.heliyon.2024.e25521;
10.1002/gch2.202300244;

10.1039/D3NA00627A

Una riflessione sui Nobel 2025.

10 ottobre, 2025 - 08:40

Luigi Campanella, già Presidente SCI.

Siamo in periodo di Nobel e vorrei fare 2 considerazioni, una sui Nobel di oggi, una sui Nobel di ieri.

Per quella sul Nobel di oggi non posso da chimico che riferirmi al premio Nobel 2025 per la Chimica da poco comunicato e dedicato alla messa a punto di strutture capaci di immobilizzare ed isolare all’interno di sistemi complessi componenti di particolare, assegnato a Susumu Kitagawa, Richard Robson e Omar Yaghi per lo sviluppo di strutture metallo organiche.

Trattasi di una sorta di economia circolare di seconda generazione che i vincitori hanno proposto per recuperare acqua ed inquinanti vari dall’aria, CO2 ed idrogeno dall’ambiente.

Incredibile Scienza la Chimica: solo poco più di 60 anni fa – un batter di ciglia rispetto alla Storia del mondo – capace di sollevare le economie ferite dalla guerra, poi scoperta ambientalista innovando produzioni e tecniche, infine fino al premio di ieri, circolare con l’invenzione di quella che vorrei chiamare la macchina del recupero universale.

Per il passato invece, tenuto conto dell’importanza della Scuola, di cui tanto si parla in chiave politica in questi giorni in Italia, vorrei ricordare il più prestigioso studio, per l’appunto valso il Nobel a Schulz ed Heckman nel 1979, che hanno quantificato il rapporto di proporzionalità diretta fra ricchezza di un Paese e suo livello di istruzione.

Applicato al caso Italia questo studio genera una perdita di 35 miliardi andati distrutti per mancanza di figure professionali e di mestieri attivi. L’incontro fra domanda ed offerta nel mercato del lavoro è essenziale, ma non come fatto straordinario ed eccezionale, ma come principio base di governance.

Questo principio ha suggerito nuovi cicli formativi e, rispetto all’Intelligenza Artificiale il suo ruolo di supporto che non può nè deve cancellare carta e penna che continueranno ad essere essenziali come strumenti di stimoli creativi e di apprendimento di base senza i quali la digitalizzazione viene subita più che applicata.

La Chimica della vecchia talpa.

5 ottobre, 2025 - 19:27

Claudio Della Volpe

Non posso cominciare questo post (vedrete un po’ strano ed anomalo) se non ricordando un altro post scritto anni fa da Rinaldo Cervellati che tutti voi conoscete, collega di Bologna e collaboratore di questo blog dal principio, che ha scritto un bel libro che compare nella nostra pagina principale dedicato alle donne che avrebbero meritato il Nobel. Rinaldo da qualche tempo è in pausa, ma spero tanto ci legga e poi torni a scrivere per noi tutti.

Il post di Rinaldo è splendido ed è dedicato alla mole, un concetto di cui rifà la storia ed analizza la complessità e difficoltà didattica; vi consiglio caldamente di rileggerlo.

C’è una pagina web dedicata sempre a questo concetto (mole e talpa) e che si intitola proprio: Calcolatrice Chimica delle Talpe

In inglese il collegamento fra talpa e mole è immediato, in quanto la talpa si chiama proprio: mole; in tedesco mol.

La parola “mole” in chimica non ha un’origine specifica ma è un calco del tedesco Mole, che deriva a sua volta dal latino moles, “massa” o “quantità”, e fu introdotta dal chimico Tedesco Wilhelm Ostwald per indicare una grande quantità di particelle.

Il post di Rinaldo comincia proprio da quel “cattivone” di Ostwald, ricordandoci che fu un premio Nobel particolare, che ricorda per certi aspetti San Paolo, un convertito, insomma.

Inizialmente era un cultore dell’energetismo, tutto era energia, e la società umana era basata sull’efficienza con la quale era in grado di sfruttare l’energia; gli atomi di cui si parlava ormai da cento anni prima di lui erano solo, per Ostwald prima della “conversione”, un trucco per analizzare i dati.

Ostwald criticava le spiegazioni meccanicistiche della natura che riducevano tutto al movimento degli atomi, l’energia era il concetto più fondamentale e universale, e la materia poteva essere compresa in termini di energia e delle sue trasformazioni. Riteneva che l’idea degli atomi non soddisfacesse lo scopo della scienza di spiegare i fatti e non fosse un’ipotesi sufficientemente robusta, soprattutto in relazione ai fenomeni chimici.

Sebbene non fosse un sostenitore della teoria atomica, Ostwald fu uno dei fondatori della chimica fisica, contribuendo a discipline che in seguito sarebbero diventate fondamentali per la comprensione della chimica moderna, compresa la teoria atomica.

La legge di Ostwald delle diluizioni, sviluppata nel 1888, permette di mettere in relazione la costante di dissociazione di un elettrolita debole con la conduttività ionica equivalente:

Keq è la costante di equilibrio, la lettera greca lambda indica la conduttività ionica equivalente e C la concentrazione. Non ne parleremo oggi.

L’energetismo d’altronde ebbe comunque un enorme peso culturale, per esempio influenzò profondamente il pensiero di Bogdanov, membro dei bolscevichi e che si scontrò con Lenin proprio su questi concetti. Energetismo voleva dire che l’energia era l’unica realtà che accomunasse materia bruta, spirito umano e società umana. Al concetto di atomo Ostwald contrapponeva “il concetto ipotetico di sistema energetico”, aprendosi la via a una rappresentazione unitaria del “divenire naturale”, che va dalla natura inorganica alla vita fino alla nascita della coscienza. Lo scontro fra materialismo ed energetismo vide schierati su fronti opposti le più importanti personalità della scienza mondiale, alcune delle quali ricordiamo qui:

EnergetismoAtomismoOstwald, Mach, Avenarius, Wald, DuhemBoltzmann, Cannizzaro, Perrin

Ricorderemo invece gli esperimenti condotti da Jean Perrin sul moto browniano delle particelle in sospensione in un liquido che culminarono nel 1908 che fornirono una forte evidenza dell’esistenza degli atomi, dimostrando che il moto irregolare e incessante di tali particelle era causato da collisioni con le molecole invisibili del liquido. Questi risultati hanno permesso a Perrin di determinare valori per costanti fondamentali legate al moto atomico, come la costante di Boltzmann, che hanno a loro volta contribuito a convincere scienziati come Wilhelm Ostwald, inizialmente scettico, della realtà fisica degli atomi.

Ostwald, ormai convertito all’atomismo, ricevette il Nobel per la Chimica nel 1909, per le sue ricerche sui principi fondamentali dell’equilibrio chimico, sulle velocità delle reazioni chimiche e per il suo lavoro sulla catalisi. Perrin lo ha ricevuto per la Fisica nel 1926 per le sue ricerche sulla struttura discontinua della materia, in particolare per la scoperta dell’equilibrio di sedimentazione, che fornì prove concrete sull’esistenza degli atomi attraverso lo studio del moto browniano.

Ma ripeto fu proprio Ostwald ad inventare e portare alla luce il concetto di mole, “scavando”, facendosi spazio attraverso il sottosuolo culturale dell’energetismo, direi nonostante l’energetismo.

In questi stessi anni si sviluppava la meccanica quantistica e la relatività e cresceva la polemica fra Einstein e Bohr, di cui parleremo in prossimi post.

Anche se sembra sconvolgente un Nobel, come Ostwald, poteva arrivare al 1908 senza credere nella realtà degli atomi, ipotesi avanzata da Dalton nel 1801 e diventata rapidamente una teoria fondamentale! Decisamente la scienza non ha uno sviluppo lineare come spesso ci viene raccontato!

Ed è per questo che la talpa che scava sottoterra, invisibile ma poi esplode in modo inatteso in superficie con la sua attività è un’animale che torna nella cultura moderna.

Shakespeare lo fa citare nell’Amleto al suo personaggio rivolto al fantasma di suo padre alla fine del primo atto; la voce dello spettro del padre ingiunge ad Amleto e ai suoi amici di giurare vendetta sulla spada “Swear by his sword”. Il fantasma si è molto spostato, anche se non si vede, dal luogo dove è apparso e scomparso. Perciò Amleto dice “Well said, old mole! Canst work i’ th’ earth so fast? A worthy pioneer!” che si potrebbe tradurre “Ben detto, vecchia talpa. Come fai a lavorare sottoterra così svelto? Che degno minatore!”.

Hegel indicando l’operare dello spirito nel “sottosuolo” della storia e la sua capacità di scuotere la “crosta terrestre” che rappresenta invece il nostro presente scrive nelle Lezioni sulla storia della filosofia «Hai lavorato bene, brava talpa!».

Ma ovviamente la frase più famosa viene ancora dopo, ne Il 18 brumaio di Luigi Buonaparte, Marx riferendosi al processo costante e profondo che modifica la realtà capitalistica della metà XIX secolo sbucando poi come sommovimento sociale nel momento più inaspettato, scrive la celeberrima frase «Ben scavato, vecchia talpa!» attribuendo alla rivoluzione l’abilità del minatore shakespeariano.

Ecco dunque che la talpa come animale simbolico è e rimane importante nella cultura mondiale.

Nella Chimica arriva tramite un caso linguistico; la talpa si dice “mole” in inglese, con una etimologia che condivide la stessa radice del francese “moulon” (cumulo) e del tedesco “Mahl” (granulo), riferendosi però alla terra smossa o al cumulo di terra creato dalla talpa che scava.

A questo punto non mi resta che chiudere il cerchio della talpa citando qui una malinconica poesia di un grande chimico e scrittore, Primo Levi, che scrisse i malinconici versi che seguono, con probabile riferimento a se stesso che cercava disperatamente di “digerire”, di superare la terribile esperienza della Shoah, ma anche l’insensibilità, la difficoltà che trovava nel farsi ascoltare quando parlava di “quelle oscure cose”, un po’ come in “Napoli milionaria!”. In quella commedia del 1950, il drammaturgo napoletano Eduardo De Filippo, attraverso la figura di Don Gennaro, rappresenta invece l’atteggiamento di chi cerca di affrontare la dura realtà post-bellica, ma viene soffocato dal rumore del quotidiano e dalla disperazione dei tempi: nessuno lo ascolta.

Non è tanto la guerra in sé a non essere ascoltata, ma la possibilità di parlarne e di trovare risposte in un contesto di ritrovato temporaneo ed occultante slancio economico; un po’ come quando oggi si parla di guerra e crescita economica dimenticando che sarebbe nucleare e senza ritorno.

Vecchia talpa.

Che c’è di strano?

Il cielo non mi piaceva,

Così ho scelto di vivere solo e al buio.

Mi sono fatto mani buone a scavare,

Concave, adunche, ma sensitive robuste.

Ora navigo insonne Impercettibile sotto i prati,

Dove non sento mai freddo né caldo

Né vento pioggia giorno notte neve

E dove gli occhi non mi servono più.

Scavo e trovo radici succulente,

Tuberi, legno fradicio, ife di funghi,

E se un macigno mi ostruisce la via

Lo aggiro, con fatica, ma senza fretta,

Perché so sempre dove voglio andare.

Trovo lombrichi, larve e salamandre,

Una volta un tartufo,

Altra volta una vipera, buona cena,

E tesori sepolti da chissà chi-

In altri tempi seguivo le femmine

E quando ne sentivo una grattare

Mi scavavo la via verso di lei:

Ora non più; se capita, cambio strada.

Ma a luna nuova mi prende il morbino, e allora qualche volta mi diverto

A sbucare all’improvviso per spaventare i cani”.

Primo Levi, scrisse questa poesia nel 1961, nel Bestiario, una raccolta poi pubblicata nelle sue opere complete.

Cosa riserva il futuro alla talpa nella cultura umana e alla mole in Chimica?

L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che non possiamo rimanere sottoterra, usciamo allo scoperto, diciamo no alla guerra, talpe anche noi.

Consultati:

https://purecalculators.com/it/moles-calculator#h-0-gen

La mole nascosta Dai lavori scientifici ai testi didattici: il caso del Numero di Avogadro.2.

Primo Levi, Opere complete

William Shakespeare, Amleto.

https://keespopinga.blogspot.com/2022/07/

LA RELATIVITÀ DA NEWTON AD EINSTEIN (PARTE 3) 

Fai clic per accedere a DiMeo299-331.pdf

Segnalo la lettura delle frasi seguenti che segnano il percorso del pensiero di Ostwald, la talpa atomica che scava dentro l’energetismo.

Nel 1895, al congresso dei medici e naturalisti che si tenne a Lubecca, Ostwald lesse una comunicazione dal titolo, molto significativo, Il superamento del materialismo scientifico. Tra le altre cose Ostwald disse:

La materia è un’invenzione, del resto abbastanza imperfetta, a cui facciamo ricorso per rappresentarci quanto vi è di permanente in tutto ciò che accade. La realtà effettiva, quella che opera su di noi, è l’energia, [inoltre] l’irreversibilità di fatto dei fenomeni effettivi della natura dimostra che vi sono processi i quali non sono descrivibili mediante equazioni meccaniche, e con ciò il verdetto sul materialismo scientifico è deciso.”

Intorno alla energetica moderna Wilhelm Ostwald, 1907

Un accenno a questo dovere ed a questa necessità, fatto da me a Lubecca nel 1896 in una conferenza sulla Disfatta del materialismo scientifico, tenuta in occasione della riunione annuale dei naturalisti tedeschi, richiamò, è vero, l’attenzione di molti, ma non riuscì a modificare essenzialmente quello stato di cose. Era perciò necessario di mostrare, portando uno sguardo sintetico nei domini generali della scienza, che il concetto e le leggi dell’Energia hanno in sè stessi realmente la facoltà di unificare e di chiarire, perchè attraggono l’attenzione dello studioso sui problemi reali ed eliminano quelli apparenti. Il mio corso di lezioni di filosofia naturale, tenuto nel 1902, ebbe appunto questo scopo.

Ostwald : 4a edizione del trattato Grundriss der allgemeinen Chemie 1908

«Mi sono convinto che da breve tempo siamo giunti in possesso delle prove sperimentali della natura discreta ossia granulare della materia, [prove] che l’ipotesi atomica aveva atteso vanamente da secoli, anzi da millenni … l’accordo dei moti browniani con le conseguenze dell’ipotesi cinetica che è stato verificato da una schiera di ricercatori…autorizzano ora anche lo scienziato prudente a parlare di una conferma sperimentale della natura atomica della materia estesa. Con ciò quella che è stata finora l’ipotesi atomica è assurta al rango di una teoria scientifica ben fondata».

Ed infine Perrin, il calcolatore del numero di Avogadro, nel suo Les atomes del 1913:

«La teoria atomica ha trionfato. Ancora poco tempo fa assai numerosi, i suoi avversari, alfine conquistati, rinunciano uno dopo l’altro a sfide che furono a lungo legittime e senz’altro utili. È a proposito di altre idee che ormai sarà condotto il conflitto degli istinti di prudenza e di audacia il cui equilibrio è necessario al lento progresso della scienza umana. Ma nel trionfo stesso, vediamo svanire ciò che la teoria primitiva aveva di definitivo e di assoluto. Gli atomi non sono quegli elementi eterni e indivisibili la cui irriducibile semplicità dava al Possibile un limite, e, nella loro inimmaginabile piccolezza, cominciamo a presentire un formicolio prodigioso di mondi nuovi».

Cronaca di un rientro a casa.

1 ottobre, 2025 - 08:28

Mauro Icardi

Difficilmente si riesce a stare lontani dai propri interessi e dagli argomenti che sono stati la base della tua crescita personale, ancor prima che professionale.

Certi concetti sono come un fiume carsico, sembrano sparire, ma poi si ripresentano. E questo accade anche quando magari vengono per qualche tempo accantonati, per  delusione o fatica. Nel mettere in ordine la libreria mi sono ritrovato tra le mani questo numero di “Le Scienze dossier”, supplemento che ormai non viene più pubblicato.

La rivista è uscita nell’autunno del 2000, ovvero un quarto di secolo fa. La mia impressione è che da allora si sia fatto qualcosa, ma non abbastanza. Ogni volta che viene diramata un’allerta meteo si verificano alluvioni, trombe d’aria, grandine con chicchi grandi come palle da tennis; fanno seguito interviste alle persone che hanno subito danni, che si mostrano più avvilite per il danneggiamento dell’auto, piuttosto che del tetto di casa. Si sente spesso ripetere dagli intervistati che non si era mai visto niente di simile in passato, cosa che dovrebbe indurre a qualche riflessione.

Ma tutte queste esperienze, sono esperienze indirette, che hanno un impatto mediato dal mass media che te lo veicola.

Martedì 23 settembre esco di casa come al solito e vado al lavoro. Telefono a casa, cosa che faccio ogni giorno, e tutto è normale. Esco dal lavoro alle 17.00 e mi dirigo in bicicletta verso la stazione di Legnano.

Non ho avuto tempo di guardare dallo smartphone i siti che danno la situazione del traffico ferroviario in tempo reale, sono uscito dall’ufficio con il sole. Arrivato in stazione i monitor mi informano di pesanti ritardi sulla linea che uso per tornare a casa. Richiamo e mia moglie mi informa che ci sono stati una quindicina di minuti di una fortissima precipitazione, con grandine, tuoni e vento.

La cronaca è riassunta in questo articolo dell’edizione milanese di Repubblica.

L’ondata di maltempo che già ieri aveva causato gravi danni in varie zone della Lombardia è tornata a investire il Varesotto: tra le aree più colpite c’è proprio la città di Varese, che è stata flagellata da un autentico nubifragio, con precipitazioni copiose e grandinate. L’acqua è arrivata anche a invadere una parte del centro commerciale Belforte. Alcune strade si sono trasformate in fiumi per le abbondanti piogge – soprattutto nelle zone di viale Ippodromo, di viale Valganna e della Schiranna – mandando il traffico in tilt: Autolinee Varesine, tramite i propri canali social, ha avvisato gli utenti di rilevanti modifiche al servizio su numerose linee, parlando di “allagamenti e disagi diffusi”.

La situazione non è migliore sul versante del trasporto ferroviario: Trenord ha comunicato che per colpa di danni dovuti al maltempo la circolazione è stata momentaneamente sospesa tra le stazioni di Malnate e Varese-Casbeno: tre i treni cancellati. Si segnalano inoltre ritardi dovuti a un veicolo che ha danneggiato le sbarre di un passaggio a livello in prossimità di Varese-Casbeno, nonché sulla linea tra Varese e Gazzada.

Riesco a prendere il mio solito treno delle 17.12 che arriva con solo 25 minuti di ritardo. Ma è strapieno, il conducente si affaccia dal finestrino e mi dice che non sa se potrò salire, il capotreno invece mi fa cenno di sì. Non ci sono solo io che devo proseguire dopo Varese. Sul monitor si legge che la destinazione finale del treno è Varese, dove di solito faccio il cambio salendo sui treni diretti in Svizzera. Ma appena dopo il capotreno ci informa della limitazione del treno a Gallarate.

A Gallarate sul marciapiede dove ferma il treno, c’è il caos. La prima cosa che mi viene in mente sono i film, o i documentari che mostravano come si viaggiava in tempo di guerra. Gente disorientata che mi rende quasi impossibile dirigermi verso il sottopassaggio. Un ragazzo che conosco, che prima viaggiava anche lui con bici al seguito, è fermo da circa un’ora. Hanno annunciato due treni che sarebbero dovuti arrivare a Varese, ma in realtà ha visto partire un treno cantiere, diretto a sgomberare il tratto di linea tra Gazzada e Varese, dove la sede ferroviaria è allagata e ci sono rami caduti sulla linea. Capisco che la situazione è critica. Riesco ad arrivare sul piazzale esterno della stazione, richiamo casa avvertendo che data la situazione rientrerò in bicicletta. Mi raggiunge il mio amico, che dice che andrà a farsi prestare una bici dalla sorella che vive a Gallarate e che farà come me. Lo saluto perché intanto la perturbazione che ha flagellato la Valceresio si sta avvicinando. Appena lasciata Gallarate mi riparo sotto un balcone, indosso i pantaloni antipioggia, e la copertura impermeabile allo zaino. Un fulmine saetta a poche decine di metri, con conseguente botto assordante. Non provo paura, ma sgomento, e comincio a pensare se non dovrò cercarmi un albergo per dormire in zona. Poi la situazione si normalizza. Alla fine pedalo fino a Varese bene o male riparato dalla mia attrezzatura antipioggia per la bici, e mi dirigo in stazione per verificare la situazione della circolazione dei treni. Sta riprendendo gradualmente, quindi salgo su un treno annunciato con arrivo a Chiasso, perché freddo e umidità si stanno facendo sentire. Veniamo ancora fatti spostare su un treno pronto sul binario a fianco, perché il blocco della circolazione ferroviaria e i ritardi hanno scombinato tutti i turni e la circolazione ordinaria ne risente. Il treno fermerà a Mendrisio, i passeggeri diretti a Lugano troveranno coincidenza, mentre per Chiasso ancora non si sa nulla. Io nel frattempo sarò già sceso ad Arcisate.

Alla fine uscito dall’ufficio alle 17.00 entro in casa alle 20. Posso dire di essere stato fortunato, anche se ceniamo a lume di candela, perché la corrente ancora non è tornata. Qualche tegola del tetto è spostata, ma il tetto è ancora sulla nostra testa. Ma ci andrà sempre così bene? Si è cenato a lume di candela, perché la corrente non era ancora tornata, però non c’era un’atmosfera romantica, tutt’altro.

Ho assaggiato l’antipasto della “carne dell’orso” di cui parlava Primo Levi, che poi trasformerà nel racconto Ferro nel “Sistema periodico”.

Pensavo di essere resiliente, in parte lo sono stato. Ma la paura e il disorientamento si sono affacciati alla mente. E soprattutto ho potuto sperimentare nei giorni successivi il solito disinteresse al tema, già sperimentato in altri contesti, anche familiari. Nella stessa settimana Trump intervenendo al palazzo di vetro all’Onu dichiara che :” Il cambiamento climatico è “la più grande truffa” di tutti i tempi. Le politiche green dell’Europa sono inattuabili “e porteranno al fallimento” diversi paesi. Negli ultimi anni “non c’è stato un aumento delle temperature anzi un raffreddamento”.

Se qualcuno ha lo stomaco forte, può trovare in rete il testo integrale del discorso. Le farneticazioni del presidente degli Stati Uniti fanno il paio con quelle di Adolf Hitler.

Questo blog si occupa di chimica, di scienza, ma oggi è sempre più difficile e faticoso farlo, in un mondo dove il senso della realtà è ai livelli più bassi di sempre.

Mi scuso con i lettori, in questo post non c’è chimica, non c’è depurazione, ma ugualmente non potevo tenere queste sensazioni solo per me. La crisi del clima è una guerra silente, che viene peggiorata da ogni conflitto reale, in termini di emissioni di combustibili fossili. E decine di istituzioni scientifiche per lo studio del clima vengono cancellate d’autorità negli Stati Uniti. Tutto questo è follia, non trovo un altro termine che possa definire meglio la situazione attuale.

Mi prendo un’ultima libertà.  Dedico questo post al mio carissimo amico Maurizio Tron, ormai “diversamente presente” dall’Aprile 2024. Maurizio, insegnante al Liceo scientifico Pascal di Giaveno, per anni vicepresidente della società meteorologica italiana, era colui che sempre cercavo quando queste sensazioni di incredulità e di inutilità mi assalivano. Primo Levi raccontava di un sogno: era a tavola con amici e parenti, in un’atmosfera giovale e festosa. Ma quando iniziava a parlare della prigionia, uno alla volta i suoi amici e familiari si  alzavano e lo lasciavano solo. Qualcosa di simile mi capita quando cerco di parlare con amici o parenti della crisi climatica. Nessuno abbandona il tavolo lasciandomi solo, ma capisco di essere il guastafeste, alla fine abbandono il tentativo Con Maurizio questo non succedeva mai E parlare con lui mi aiutava sempre a trovare quel briciolo di speranza.  Critica ma pur sempre speranza.

Chimica a due facce.

27 settembre, 2025 - 09:08

Luigi Campanella, già Presidente SCI

A caccia di casi di specie che dimostrino quanto sia vero parlare di 2 volti della Chimica ho trovato quest’altro dato.

Il TiO2 è universalmente accettato come un foto-catalizzatore efficace: in presenza di opportuna radiazione UV produce vacanze elettroniche nella sua banda di valenza ed eccessi elettronici nella sua banda di conduzione (band-gap di 3.25 eV). Questi, le une e gli altri, reagiscono con O2 e H2O producendo ROS, ossia specie radicaliche dell’ossigeno, idrossido, perossido e superossido in grado di attaccare le molecole di molti composti con la conseguente loro degradazione, quindi con una possibile applicazione sul piano ambientale ed igienico sanitario.

Purtroppo man mano che la degradazione procede la sua efficienza diminuisce. Si è così trovato che l’aggiunta di fluoro, il tanto temuto elemento dei PFAS, sia assorbito in superficie del TiO2, sia aggiunto come drogante nella sua struttura, consente di superare questo inconveniente garantendo una prolungata efficienza al processo di fotodegradazione.

La faccia buona del diossido di titanio ha però anche un altro connotato. Fa riferimento al suo impiego come colorante classificato E171 utilizzato in molteplici applicazioni a partire da componente di pitture e quadri, anche se solo moderni vista la giovane età di questo colorante; ad essi conferisce luminosità e opacità, la stessa attività che svolge verso i rivestimenti in resina. Anche le applicazioni cosmetiche rispondono al criterio delle due facce: da un lato utilizzato come filtro solare per proteggerci dai pericolosi raggi UV responsabili del melanoma, aggressivo tumore della pelle, dall’altro agente di reazioni cutanee come dermatiti, eczemi, allergie, o addirittura di invecchiamento e infiammazioni croniche della pelle, per non parlare della sua cancerogenicità dermica, tanto che l’uso in questo campo è stato vietato dal 2024. Ancora una chimica singolarmente a due facce: per prevenire il melanoma dovuto ai raggi UV si usa per protezione un composto potenzialmente cancerogeno!!

Oggi però a rinforzare la seconda faccia, quella cattiva del TIO2, arrivano i risultati di una ricerca pubblicata da istituzioni di ricerca francesi (CNRS, INRAE, AP-HP) che evidenzia come questo composto sia ritrovato nel quasi 90%di un set di campioni di latte materno, animale o industriale.

Tenuto conto che si tratta di un composto vietato per uso alimentare sin dal 2022 questa scoperta non può che essere collegata ad una ubiquitarietà del composto in questione che contamina suoli ed acque. Questo dato non può non preoccupare tenuto conto della cancerogenicità del TiO2 e del fatto che i consumatori del latte materno sono neonati, quindi soggetti appena venuti alla vita, quindi non ancora sviluppati per resistere alle insidie dirette alla propria salute.

La ricerca è stata eseguita impiegando come tecniche analitiche Fluorescenza X e Spettrometria di Massa al fine di individuare micro e nano particelle del TiO2 nei campioni di latte. Con queste tecniche i ricercatori hanno ricercato nel latte materno composti dai nomi non noti al consumatore medio, ma ben noti in ambito scientifico in quanto derivati del TiO2, tra i quali rutilo ed anatasio, entrambi ossidi, ilmenite (FeTiO3), titanite (CaTiSiO5), pseudo-brookite (Fe2Ti05).

Quasi tutti (90%) i campioni di latte materno analizzati, liquidi o in polvere, biologici o meno, pastorizzati o no, sono risultati positivi al test contenendo da 6 milioni a 4 miliardi di nanoparticelle di TiO2, a seconda del tipo di campione. Il commento degli autori è particolarmente preoccupante: fra concentrazione nell’ambiente e presenza nel latte materno del TiO2 c’è un gap che impedisce la correlazione fra i 2 dati: ma allora la fonte deve essere un’altra e deve essere trovata al più presto tenuto conto della tossicità del composto, anche per gli adulti, e che il suo impiego in vernici, materiali di vario tipo, rivestimenti è in continua crescita.

Il consumo mondiale di biossido di titanio (TiO₂) nel 2024 è stato valutato in oltre 21,49 miliardi di dollari e si stima che supererà i 48 miliardi entro il 2037, con una crescita media annua (CAGR) superiore al 6,4%. La crescita è trainata dall’aumento della domanda di vernici e rivestimenti, settori chiave per l’utilizzo del TiO₂, soprattutto in Asia-Pacifico a causa della rapida industrializzazione e dell’edilizia. 

C’è stata vita su Marte?

22 settembre, 2025 - 08:01

Diego Tesauro

Da Epicuro a Giordano Bruno, da Kant a Hegel, sono molti i filosofi che si sono interrogati, talvolta in modo scettico, altre volte meno, sulla possibile esistenza di forme di vita extraterrestre.

Nel XIX secolo a seguito della scoperta dei canali da parte di Schiapparelli, con le maggiori somiglianze con la Terra rispetto agli altri pianeti del Sistema Solare, Marte è stata ipotizzata come la sede della vita alternativa alla Terra più vicina a noi. Anche la fantascienza e l’arte vedeva in Marte il pianeta in cui vivevano gli “omini verdi”. Nel romanzo “Sotto le lune di Marte” lo scrittore Edgar Rice Burroughs descrisse varie specie di Marziani, tra cui una razza con la pelle verde e nella famosa Guerra dei Mondi nel 1938, Orson Wells faceva una radiocronaca dello sbarco dei marziani in una cittadina del New Jersey. In realtà già dall’inizio del XX secolo si era compreso che su Marte, date le condizioni attuali dell’atmosfera, estremamente rarefatta (al suolo la pressione è di 4 mbar) e composta dal diossido di carbonio, al massimo potevano essere presenti forme di vita unicellulare nel suolo.

Su queste basi, durante la missione Viking nel 1976, toccando il suolo di Marte, furono effettuati esperimenti basati sulla somministrazione di amminoacidi, acido glicolico, lattato e carboidrati in entrambe le forme levogira e destrogira per verificare se si producessero ossidi di carbonio, generati dal metabolismo di possibili microbi presenti nel suolo marziano. I risultati, discutibili all’epoca, non diedero una risposta univoca, ma successivamente si è esclusa la presenza di attività microbica.

Ciò che però non ci si aspettava era che uno strumento principale a bordo dei lander, il gascromatografo-spettrometro di massa, non rilevò alcuna materia organica. Questa fu una sorpresa per gli scienziati, che sapevano che il materiale organico veniva depositato sulla superficie marziana da comete e meteoriti. L’apparente assenza di molecole organiche nel materiale superficiale marziano è diventata un mistero scientifico per decenni. Nel 2008, la sonda spaziale Phoenix esplorò il polo nord di Marte. Phoenix scoprì la presenza del perclorato sul suolo marziano, raro sulla Terra. Dopo ulteriori conclusioni sulla presenza di questo sale su Marte e esperimenti complementari sulla Terra, gli scienziati ipotizzarono che questo sale potesse aver clorurato eventuali sostanze organiche all’interno degli strumenti Viking. Effettivamente negli esperimenti del Viking è stato possibile individuare un prodotto di reazione tra il sale e le sostanze organiche presenti nel forno Viking, il clorobenzene, una molecola organica clorurata [1]. La presenza del perclorato aveva qualche anno fa spinto un gruppo di ricerca tedesco a dimostrare la possibilità di forme di vita estremofile quali gli Archea capaci di sopravvivere in queste condizioni di cui ci siamo occupati in un altro post .

Accertata la presenza di sostanze organiche, da allora tutte le missioni spaziali hanno avuto come obiettivo oltre a quello di dimostrare l’esistenza di sostanze organiche, se in passato ci fosse stata della vita microbica, rilevando un’origine biotica delle molecole. In questo scenario si inserisce la missione NASA Mars 2020. Il rover Perseverance sta esplorando il cratere marziano Jezero, in quanto è uno dei luoghi più promettenti per l’identificazione di vita extra-terrestre nel passato del pianeta rosso. Il cratere corrisponde ad un’antica area che un tempo ospitava un lago e che in passato potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità. Rilevare materia organica è fondamentale per valutare la possibile abitabilità passata ed identificare potenziali biosignature, poiché composti organici semplici possono essere nutrienti per la vita e composti organici complessi possono fornire evidenze dirette di biogenicità.

I risultati sono stati oggetto di una recente pubblicazione su Nature Astronomy [2].  

Per poter effettuare le analisi, a bordo del rover, è stato utilizzato lo strumento Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals (SHERLOC), uno spettrometro Raman e di fluorescenza nel profondo UV (DUV). I risultati sono stati paragonati a quelli ottenuti in laboratorio (a cui ha collaborato un laboratorio dell’Università Federico II) effettuando le stesse analisi con precursori sintetizzati ad hoc. In particolare un confronto tra il set di dati di laboratorio e le osservazioni SHERLOC nella zona QRT (parte della formazione rocciosa Séítahe dove è “ammartato” Perseverance ) e sul campione Pilot Montain (PMT) ha mostrato che diversi tipi di composti organici aromatici sono presenti nei solfati come il naftalene, l’1- e 2-naftolo (HN), 1,3- e 2,6-diidrossinaftalene (DHN), il 9-metilantracene (9-MA), l’uracile e un polimero di idrocarburo aromatico ossi-policiclico (IPA) sintetizzato da 1-HN (poli1-HN) – presentano intense bande di strechting  dell’anello C–C e C=C (e bande di allungamento C=O nel caso di composti come l’uracile con gruppi funzionali carbonilici sull’anello aromatico) in diverse posizioni all’interno delle regioni spettrali di interesse. Ci si pone quindi il problema dell’origine di queste molecole e si prefigurano 4 scenari (Figura 1). Lo scenario 1a descrive un processo igneo in situ per la formazione di IPA a partire da gas magmatici intrappolati nei pori delle rocce ignee del cratere Jezero, ed in seguito conservati nei solfati precipitati a seguito dell’alterazione acquosa, che potrebbe essere coerente con l’origine della zona da cui proviene il campione QRT. Lo scenario 1b descrive un processo igneo ex situ per la formazione di IPA verificatosi all’esterno del cratere Jezero, e solo successivamente trasportati verso il cratere Jezero, dove gli IPA potrebbero essere stati coprecipitati con i sali solfati o intrappolati e conservati all’interno dei cristalli. Questo scenario potrebbe essere coerente con le osservazioni sia del campione QRT che del PMT, e con l’accumulo selettivo di IPA in queste rocce al posto del carbonio macromolecolare (MMC) a causa della sua minore mobilità nelle fasi fluide. Lo scenario 2 descrive un potenziale meccanismo idrotermale per la formazione di IPA e il successivo trasporto da parte di acque sotterranee idrotermali che potrebbe essere correlato all’idrotermalismo regionale associato al vulcanismo della Syrtis Major. Lo scenario 3 descrive un potenziale processo di rilascio esogeno di IPA o di produzione durante processi di impatto d’urto. Lo scenario 4 descrive una potenziale origine biotica degli IPA come prodotti di degradazione chimica di antichi composti biotici.

Figura 1 Schema dei 4 scenari proposti dai geochimici del lavoro di Nature Astronomy. Le frecce verdi indicano i meccanismi di formazione in situ, mentre le frecce blu indicano i meccanismi di formazione ex situ. Le posizioni dei target QRT e PMT nel cratere Jezero sono mostrate in un’immagine acquisita dalla telecamera stereo ad alta risoluzione a bordo della sonda orbitante Mars Express dell’ESA. Credit: background image, ESA/DLR/FU-Berlin/NASA/JPL-Caltech

I risultati ottenuti sono coerenti con gli studi sui meteoriti marziani e le osservazioni dal cratere Gale e rafforzano l’ipotesi che i solfati potrebbero essere cruciali nella conservazione e nel trasporto di molecole organiche nell’ambiente marziano e, quindi, potrebbero aver svolto un ruolo significativo nel ciclo del carbonio marziano, influenzando la disponibilità e il ciclo dei composti del carbonio necessari alla vita.

Nonostante la rilevanza dei risultati alla domanda che ci siamo posti all’inizio su una possibile presenza di vita nel passato di Marte, non si può associare una risposta definitiva. E’ necessario stigmatizzare i titoli dei quotidiani e dei siti internet, che per catturare l’attenzione del lettore, riportano nel titolo argomentazioni diverse da quelle correttamente riportate negli articoli. Considerati i limiti delle tecniche di spettroscopia Raman e di fluorescenza di Perseverance, intrinsecamente meno diagnostiche dei metodi di spettrometria di massa utilizzati dal rover Curiosity, che forniscono identificazioni chimiche più definitive, le diverse ipotesi richiederebbero ulteriori studi di laboratorio. Questi studi potrebbero ricostruire i processi di alterazione chimica che potrebbero essersi verificati nel cratere Jezero nel tempo e che hanno portato alla formazione delle sostanze organiche osservate. Una risposta più chiara si potrà avere quando i campioni torneranno sulla Terra nell’ambito della Mars Sample Return Campaign per analisi ad alta sensibilità in laboratori terrestri.

Bibliografia

[1]Guzman, M. et al. Journal of Geophysical Research: Planets. 2018, 123, 1674-1683. 10.1029/2018JE005544

[2] Fornaro T. et al. Nature Astronomy https://doi.org/10.1038/s41550-025-02638-z

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